«Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?» in pixel art. Si chiama Shakespeare Showdown / With a Kiss I Die ed è il primo videogioco made in Italy, realizzato in estetica vintage, con l’obiettivo di rileggere digitalmente l’universo di William Shakespeare. Non «teatro in scatola», sia chiaro, ma una proposta innovativa atta a indagare le possibili relazioni tra linguaggio teatrale e linguaggio ludico, ponendo lo spettatore come parte attiva dell’evento.

Il fulcro del racconto è l’amore di Romeo e Giulietta, questa volta messo in crisi dalla minaccia dell’oblio. Il giocatore può decidere se incarnare uno o l’altra e, a seconda della scelta compiuta, vivere così due avventure completamente diverse.

Il progetto è ideato dall’associazione teatrale Enchiridion, fondata nel 2019 a Torino da Mauro Parrinello, Matteo Sintucci e Francesca Montanino, che ci ha raccontato le tappe e l’impegno di questa scommessa.

Francesca, come siete riusciti a far dialogare teatro e videogioco?

L’idea è nata circa dieci anni fa. Lo scopo iniziale era prettamente didattico, con l’obiettivo di poter far conoscere alle nuove generazioni la figura di Shakespeare, l’epoca in cui ha vissuto, la sua scrittura, il linguaggio delle sue opere… Avevo preso i contatti con una casa editrice che si occupava di riscritture educative, ma la cosa entrò in stallo. Poi, ad aprile dell’anno scorso, in pieno lockdown, uscì un bando promosso da Residenze Digitali (promosso da Kilowatt Festival/Armunia, nda) che, appunto per via della pandemia, aveva lo scopo di proporre progetti in digitale. L’idea è stata così ripresa e abbiamo voluto allargare la fruizione anche agli adulti. La scommessa è stata quella di utilizzare come base l’opera di Shakespeare, riscrivere la trama in modo originale, rielaborare attori veri con la pixel art e inserire il tutto nel mondo videoludico.

Perché proprio Shakespeare?
Con Mauro e Matteo, gli altri due ideatori, abbiamo messo assieme una passione e tante idee in comune. Loro sono entrambi diplomati alla Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, poi Mauro è anche regista, mentre Matteo si occupa anche di musica. Io, invece, ho conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Siena sulle riscritture shakespeariane in epoca contemporanea. Quindi tutti e tre possediamo una buona conoscenza di Shakespeare, con modalità e su livelli diversi: chi l’ha studiato da attore e chi, come me, da ricercatrice.

È stata molto complicata la gestazione?
Le difficoltà sono state enormi. Ogni giorno provavamo la demo per riscontrare mancanze ed eventuali errori. Ovviamente sapevamo fin dall’inizio che noi tre non bastavamo per la realizzazione, perché nessuno aveva competenze informatiche o di game design. Siamo stati fortunati a trovare una squadra di lavoro bellissima, formata col collettivo Gorilla Gang di Torino, che si occupa di video editing e di produzione digitale, e con lo sviluppatore Daniele Aurigemma. Se non ci fosse stata la passione di ogni singola persona, che magari faceva anche più del dovuto, non so se ce l’avremmo fatta.

Il progetto vuole anche essere un omaggio verso i nostalgici della pixel art, come accennavi.

A Mauro e Matteo, entrambi appassionati di videogiochi, piaceva molto l’idea di un’estetica anni 80/90. Poi, ora che siamo tutti e tre sulla soglia dei 40, sentivamo il bisogno di un ritorno al passato. Diciamo che abbiamo soddisfatto la nostra crisi di mezza età (ride, nda). Però, l’estetica adottata piace anche ai più giovani, in qualche modo ne subiscono il fascino e ne riconoscono un valore. E, secondo me, ha un senso anche più «raffinato». Il fatto stesso che il pixel sia la scomposizione massima dell’immagine in tanti pezzettini, obbliga in qualche modo il giocatore a doverli assemblare per ricomporla. Ed è un po’ quello che capita soprattutto nel teatro di Shakespeare, dove non ci sono scenografie, dove tutto è evocato dalla parola, ed è l’immaginazione dello spettatore a dover fare il resto.

Tra i tanti attori presenti, spuntano anche i nomi di Tindaro Granata e Iaia Forte.
Tindaro Granata è stato il primo a essere coinvolto, di una disponibilità, non solo artistica ma anche umana, fantastica. Lui è la «nostra» regina Mab, fata narrante che tesse la fila del gioco, detta le regole e aiuta lo spettatore/giocatore a orientarsi. Con Iaia Forte, invece, ho un rapporto professionale iniziato diversi anni fa. Le ho chiesto di partecipare perché mi piaceva l’idea che potesse incarnare Titania, suo personaggio storico nella messa in scena del Sogno di Carlo Cecchi. E poi, passo dopo passo mentre presentavamo il progetto, tanti nomi ci hanno chiesto di poter fare una parte, a titolo assolutamente gratuito.

Un dettaglio interessante è la fluidità di genere tra interpreti e personaggi.
Sì, vero. Per quanto riguarda il Fool, che Romeo incontra a un certo punto, abbiamo voluto rendere omaggio al grande teatro di Strehler e far sì che il personaggio, originariamente di sesso maschile, fosse interpretato da una donna, come nel suo adattamento di Re Lear. Così come l’idea che la «nostra» regina Mab dovesse racchiudere in sé tutti i generi possibili, e che la trama di Giulietta fosse popolata dalle eroine shakespeariane, dimenticate o perché non amate o perché schiacciate dall’ombra degli uomini. Abbiamo mantenuto la divisione di genere giusto nei due protagonisti, essendo la prima volta che lavoriamo su una riscrittura con tanti personaggi, non volevamo confondere ancora di più.

«Shakespeare Showdown», appunto, pone il giocatore in un ruolo attivo, attraverso le proprie scelte può determinare l’andamento della storia e del proprio destino. Un fattore rincuorante, quello di poter esercitare il controllo di noi stessi almeno davanti allo schermo, soprattutto in questo ultimo anno così buio e incerto.
Verissimo, infatti in questo periodo anche il videogame è diventato un «rifugio» per tante persone, proprio per il potere che ha di simulare una serie di azioni di cui sei autore. Il teatro che abbiamo sempre proposto, e che abbiamo sempre ricercato, è una dimensione in cui la collaborazione spettatore-attore c’è, esiste, e non vuole essere passiva.

La minaccia dell’oblio è uno dei temi cardine del vostro lavoro. Un male che, purtroppo, stanno vivendo anche i teatri e i cinema del nostro paese.
Sì, non credo sia un caso il fatto di essere stati ossessionati da questo aspetto. Abbiamo scelto la «dimenticanza» perché il potere del palcoscenico e della sala è quello di rendere immortale ciò che è mortale nella realtà. Il nostro progetto vuole anche essere un simbolo di speranza per il teatro, ora che è veramente in ginocchio.

Quali sono le vostre posizioni su «ITsART», la cosiddetta «Netflix della cultura»?
Il senso del teatro in streaming è di per sé un controsenso, proprio per i motivi di cui sopra. Non si può sostituire, in nessun modo, il «qui e ora» della fruizione di uno spettacolo dal vivo. Per fare una cosa del genere dovremmo avere una cultura della materia ben diversa. Non puoi, col mezzo televisivo, indorare la pillola a un pubblico che non ha dimestichezza col teatro. Si dovrebbe adottare un altro tipo di strategia, cioè partire dall’insegnamento nelle scuole, facendolo così conoscere ai giovani, e non attraverso la tivù.

Prossimi progetti in cantiere?
Dopo il rilascio online faremo una versione ridotta, che da primavera sarà disponibile sotto forma di cabinato, come quelli delle sale giochi, sperando di poterlo presentare a un festival di Torino quest’estate. E magari proporre anche ad alcuni teatri e musei di poterlo ospitare. Certamente vorremmo tornare anche allo spettacolo dal vivo. Prima del lockdown dell’ anno scorso, avevamo avviato un laboratorio permanente con tutti ragazzi stranieri di seconda generazione, nel quartiere Barriera di Milano, dove operiamo. Stiamo anche sistemando la nostra sede per poterla inaugurare appena si potrà riaprire.