“Double autoportrait d’Hippolyte e de Paul Flandrin”, Parigi, Louvre

 

L’uomo che guarda lontano, scrutando con distacco e dignità gli alti compiti cui si sente chiamato, è Hippolyte Flandrin. La sua affermazione artistica è già segnata all’epoca di questo autoritratto del 1838, durante la felice residenza a l’Académie française in Villa Medici a Roma. La forza del dipinto deriva dalle virtuose variazioni tonali della giacca ardesia su fondo antracite, e dall’incarnato levigato e luminoso ritratto a mezzo busto còlto di profilo, come impresso su una moneta antica. Il volto spicca, austero e profondo, come notarono i commentatori dell’Esposizione Universale del 1855, quando ormai l’artista è divenuto membro de l’Académie des beaux-arts e promosso Ufficiale della Legion d’Onore. Ma anche se Hippolyte è considerato una figura maggiore del suo tempo, non si può pensare alla sua carriera senza il sodalizio con artisti altrettanto acuti come il fratello minore, Paul (1811-1902), e il maggiore, Auguste (1804-’42); tutti e tre sotto l’attento magistero di Jean Auguste Dominique Ingres. Oggi, a mettere al centro il legame profondo tra i fratelli è l’ampia retrospettiva a l’Académie des beaux-arts di Lione, in corso fino al 5 settembre: Hippolyte, Paul, Auguste: Les Flandrin, artistes et frères, curata da Elena Marchetti e Stéphane Paccoud (catalogo Ed. In Fine, e 39,00).
Come in un Bildungsroman, chiamati dall’ansia di perfezionamento e riconoscimento personale, nell’aprile del 1829, Hippolyte e Paul lasciano Lione per Parigi, compiendo il viaggio a piedi, per risparmiare la piccola somma di denaro su cui potevano contare. A sostenerli economicamente e moralmente è Auguste, che a Lione implementa la recente tecnica litografica. Entrati casualmente nell’atelier di Ingres, restano per tutta la loro vita fedeli ai dettami e ai consigli del maestro, la cui didattica è essenzialmente costituita dalla copia degli antichi. I fratelli frequentano il Louvre, come attestano i taccuini e alcuni studi, ma senza strafare. Ingres consiglia di prediligere le composizioni semplici, concentrandosi su figure o dettagli isolati, più che sull’insieme di un’opera. A ogni modo il disegno resta il fondamento: «cominceremo col disegnare – ripeteva ai suoi allievi –, disegneremo, e poi disegneremo ancora». Oltre all’atelier di Ingres, Hippolyte e Paul sono iscritti all’École des beaux-arts, ma esclusivamente per partecipare ai concorsi pubblici, tra cui il più prestigioso è il Prix de Rome.
Nonostante le ottime prove date, l’essere allievi di Ingres, per conflitti egemonici in seno a l’Académie, nuoce al loro successo almeno fino al 1833. Solo allora Hippolyte riesce a vincere l’estenuante concorso di composizione storica, che gli offre la possibilità di soggiornare per cinque anni in Villa Medici. Paul lo segue nel giro di un anno, da privato, per intraprendere la carriera di paesaggista storico. Nel 1835, con Ingres come direttore de l’Académie française a Roma, il gruppo si ricompatta nel segno di una maggiore prossimità alle fonti della sua cultura visiva: Raffaello e gli antichi. L’importanza capitale che in pittura riveste il tema del corpo umano, rende necessario da parte degli artisti l’invio a Parigi di saggi di fine anno. Tra questi, nel 1837, vi è forse l’opera più nota e fortunata di Hippolyte: Jeune Homme nu assis sur un rocher, au bord de la mer. In primo piano, di profilo, davanti a un orizzonte marino, un efebo nudo su di una rupe rocciosa poggia la testa alle ginocchia e cinge le gambe con le braccia. Lo sguardo è assorto, in penombra, rivolto all’interno della curva disegnata dalla schiena. Come bene rileva Elena Marchetti, la forza archetipica del soggetto nasce dalla spoliazione di ogni riferimento narrativo, riuscendo a Hippolyte di operare nel campo del nudo maschile ciò che a Ingres era riuscito, con La Grande Baigneuse, nel nudo femminile. Inoltre la Marchetti individua l’origine del nudo di Hippolyte nella medesima posa dell’accidioso Belacqua illustrata dal Flaxman per il canto IV del Purgatorio dantesco (va ricordata qui l’importante ascendenza che le illustrazioni del Flaxman hanno avuto, prima che sui Flandrin, sull’opera di Jacques-Louis David e di Ingres).
La scoperta del paesaggio italiano è fondamentale per Paul. Durante il suo soggiorno romano di quasi cinque anni, costituisce una personale topografia di luoghi, molti dei quali in acquerello, manifestando una generale vocazione alla sintesi, poco incline alle variazioni atmosferiche, eppure con illuminazioni che fanno oscillare la sua pittura tra Poussin e le folgoranti anticipazioni di Corot, non senza un ricorso all’elemento simbolico. Ed è in Italia che ritroviamo il fratello maggiore Auguste. Dopo aver raggiunto l’atelier di Ingres a Parigi nel 1833, riceve nuova linfa pittorica a sud di Roma, durante il viaggio realizzato coi fratelli tra maggio e luglio del 1838. Lo si vede in un esuberante autoritratto realizzato a Napoli, dai toni accesissimi e in primo piano, con capelli e barba incolti e un cappello frigio. È un periodo e un luogo di ritrovata libertà creativa per lui che, sulla scorta di una certa pittura romantica conosciuta a Parigi, in particolare quella di Léopold Robert, concilia il soggetto pittoresco del paesaggio mediterraneo all’interesse esotico per la vita dei pescatori. Ma dopo questa breve parentesi italiana, Auguste ritorna a Lione per intraprendervi una carriera di interprete della borghesia moderna, realizzando ritratti di avvocati, medici e personalità dello spettacolo, fino alla sua improvvisa scomparsa a trentotto anni, nel 1842.
Hippolyte, profondamente scosso, realizza per sé una delle opere più ieratiche, vibranti e forse moderne, in termini di essenzialità di forme ed espressività cromatiche, che gli sia mai riuscita: La Pietà. Il riferimento è all’opera di Sebastiano del Piombo conservata a Viterbo, molto apprezzata anche da Ingres. E il profondo sentimento religioso che ne promana ci fa comprendere anche l’importanza del tema sacro per Hippolyte, che in quell’anno riceve la commissione di decorare gli spazi interni della chiesa gotica di Saint-Germain-des-Prés. È l’opera di una vita: ventidue anni sui ponteggi, con l’aiuto di Paul, e da quest’ultimo completata, dopo la morte di Hippolyte. Un manifesto di stile che negli inziali anni sessanta, nell’arte sacra francese, vede l’opposizione di questo ciclo, oggi restaurato, all’opera di Eugène Delacroix nella chiesa di Saint-Sulpice: cioè della linea contro il colore. E la sua bellezza non poteva che destare l’entusiasmo di Dante Gabriel Rossetti che, già nel 1849, lo assurge a proprio modello di arte esclamando: «Fantastic!!! Fantastic!!!».
Nell’esposizione di Lione è presente anche un’ampia documentazione dei restauri del ciclo pittorico, durati dal 2016 al 2020, come occasione per uno studio fisico completo delle decorazioni che ha permesso di entrare nel laboratorio di realizzazione di questi dipinti, e di tracciare meglio la loro genesi e sviluppo. Le analisi effettuate hanno confermato che sia Hippolyte che Alexandre Denuelle, impegnato nelle decorazioni di contorno, hanno fatto la scelta della pittura a cera su parete opportunamente preparata. La tecnica della cera è una rielaborazione a freddo degli encausti pompeiani, ma la sua tossicità è fatale a Flandrin che, nel 1857, sempre più esausto, scrive: «Oh! questa pittura a cera mi sta uccidendo». E si ritira a Roma per riposare, tra i suoi modelli antichi, nel novembre del 1863, spegnendosi cinque mesi dopo.