Nella prefazione di Musica per camaleonti (1980), raccolta di racconti, ritratti e scritti occasionali, Truman Capote traccia uno schizzo della sua carriera. Decisiva, per la reazione che avrebbe suscitato in lui, fu la lettura di un libro di Lilian Ross intitolato Picture (1952). Ross, penna tra le più note nella storia del «New Yorker», aveva seguito passo a passo la lavorazione del film di John Huston The Red Badge of Courage (noto in Italia come La prova del fuoco), tratto dal romanzo di Stephen Crane.

«Mi chiedevo – scrive Capote – cosa sarebbe accaduto se l’autrice si fosse sottratta alla rigorosa disciplina della pura cronaca e avesse trattato il materiale come fosse un romanzo… Il libro ci avrebbe guadagnato o perso?». Da quella domanda era nata la fusione di fiction e cronaca di Si sentono le Muse, racconto della tournée di una compagnia afroamericana in Unione Sovietica, di A sangue freddo, modello del non-fiction novel, e poi l’estremo, incompiuto Preghiere esaudite, così scabrosamente vero (e pettegolo) da rendere Capote persona non grata nell’alta società newyorkese.

Al suo primo romanzo dopo una raccolta di racconti che aveva fatto intravedere una vena narrativa autentica (Tipi non comuni, Bompiani 2021), Tom Hanks sembra riconnettersi con la domanda di Capote, stringendola ancora di più al libro di Lilian Ross che l’aveva suscitata. Chi meglio di uno degli attori hollywoodiani più celebrati (e pagati), il successore di James Stewart come volto conciliante dell’americano bianco medio, il collaboratore di autori (Spielberg, i fratelli Coen, Mendes, Eastwood), potrebbe raccontare la genesi di un film? Il cinema ha messo in scena spesso sé stesso (ovvi gli esempi: 8 e ½, Effetto notte, I protagonisti ecc.), meno di frequente la letteratura ha scelto di narrare il cinema.

Se si guarda in ambito americano alla tradizione degli Hollywood novels, e a due dei suoi esempi più celebri – Il giorno della locusta di Nathanael West e Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald –, prevale un panorama di cinismo e vanità, con la California come Occidente dell’Occidente, e suo sepolcro osceno. Il romanzo di Tom Hanks si mostra originale nel distaccarsi da questo disincanto – che a volte ha generato epigoni stanchi – collocandosi invece in un filone che deve più allo sguardo di Frank Capra.

Al centro di Nascita di un capolavoro del cinema (Bompiani «Narratori stranieri», trad. di Alessandro Mari, pp. 491, € 22,00) c’è un regista in stallo creativo che decide di farsi coinvolgere nell’ennesimo franchise di supereroi e, per dargli un guizzo autoriale, lo ibrida con un vecchio fumetto indie degli anni settanta, La leggenda dell’incendiario. Ma la storia del suo film lo precede, e così Hanks fa iniziare il racconto alla fine degli anni quaranta, quando Robby Andersen, che diventerà l’autore della strip, riceve la visita dello zio reduce dalla guerra.

È un’apparizione scioccante e seducente: lo zio Bob è una specie di vagabondo che gira per l’America con un gruppo di motociclisti, veterani come lui che non hanno saputo riadattarsi alla quotidianità dei tempi di pace. Bob si accattiva il nipote dicendogli di essere il vero protagonista di un fumetto che racconta le avventure di un marine armato di lanciafiamme, giustiziere di soldati giapponesi. Robby ha appena il tempo di affezionarsi a quell’eroe in carne e ossa, che di nuovo lo vede sparire dietro i suoi demoni. Trent’anni dopo, nel pieno della contestazione alla guerra del Vietnam, Robby trasformerà l’incendiario nella parodia del soldato americano che dà fuoco al mondo. Ma solo decenni dopo ancora, quando incasserà i diritti cinematografici del suo personaggio, ritroverà le tracce dello zio, libero dall’alcol e dai traumi e proprietario di un ristorante cinese insieme alla moglie orientale.

Nel mezzo, ci sono le fasi di lavorazione del film seguite da vicino (il casting, la preparazione, le riprese – ma perché così poco spazio alla scrittura?). Dominano questa parte del romanzo tre personaggi femminili: la produttrice Al, l’attrice protagonista Wren (l’incendiario nel film è diventato il villain dell’eroina di turno) e la tuttofare Ynez: le Parche che presiedono al destino della pellicola, ancora più del regista (e la passione di Al per i lavori a maglia funziona da metafora, forse involontaria).

Hanks segue minuziosamente i tragitti individuali dei personaggi, è preoccupato di non lasciarci all’oscuro di nulla del loro passato e delle loro motivazioni, con l’effetto di disinnescare la tensione delle scene e dell’andamento generale. Da veterano dell’arte che per eccellenza mostra, l’Hanks scrittore è troppo occupato a spiegare. La sua statura deve aver intimorito gli editor, che avrebbero potuto lavorare di più di forbice. Non mancano comunque guizzi da insider, da chi ha confidenza con la materia; come la definizione del prodigio di fare un film, che è come un aereo «progettato da poeti, assemblato da musicisti, supervisionato da manager appena usciti dalla facoltà di economia, e che viene affidato a piloti della domenica afflitti da un deficit di attenzione. Quante possibilità ci sono che un aereo del genere si alzi in volo?».

La letteratura, invece, è meno miracolosa – o almeno qui la grazia sfiora di rado le pagine. Se di fronte al libro di Ross, Capote aveva deciso di «romanzare» la cronaca, diventando il dio invisibile del suo racconto, Hanks avrebbe dovuto procedere in modo opposto: raccontarci la vera Hollywood, non mediata da finzioni che sanno di indovinello per addetti ai lavori, e avere il coraggio di entrare di persona nelle pagine del libro – con tutto l’ingombro del suo ruolo, ma anche assumendosi il rischio dell’esposizione.