Il terzo episodio della saga tutta polacca di The Witcher, ispirata ai romanzi di Andrzej Sapkowsky, è un «monstrum» nell’accezione latina del termine. Un videogioco prodigioso che genera stupore e insieme atterrisce, attrae con la bellezza dei suoi vasti panorami e inquieta con gli stessi, quando tra i bianchi tronchi di un bosco di betulle, nei pressi di un limpido, incantevole lago su cui si specchia un cielo azzurro di mezzodì, scorgiamo le purulente ferite con cui la guerra ha sconciato la terra. Corpi massacrati e scomposti tra le caledonie e il prezzemolo selvatico, cadaveri arsi o appesi ai rami di grandi querce. All’orizzonte si vedono i fumi di villaggi rasi al suolo mentre il vento trasporta i lamenti dei sopravvissuti e l’ululato dei lupi ingrassati dai resti dei defunti.

Il contesto fantasy è sfrenato, assai più simile all’epopea tolkieniana che a quella di Martin, sebbene con l’opera di quest’ultimo The Witcher condivida l’estrema violenza e un’esplicita sensualità erotica. Ma qui ci sono elfi, nani e mostri provenienti da un universo fantasioso più tradizionale tanto che sembra di essere in una «quarta era» della Terra di Mezzo dove tutto è andato a rotoli dopo la distruzione dell’Anello e il dominio degli uomini, o meglio «è andato avanti» come nella saga de La Torre Nera di Stephen King.
Ciò che distingue questa serie da quelle di tanti altri giochi di ruolo occidentali è il carisma e l’evidente provenienza letteraria del protagonista, ovvero Geralt di Rivia, reso mutante dall’atroce processo che l’ha trasformato in un witcher, un cacciatore di mostri e creature demoniache che persegue indipendentemente i suoi obbiettivi nel mondo belligerante comportandosi alla maniera dello Yojimbo nel film di Akira Kurosawa.

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L’immedesimazione in un personaggio così definito potrebbe risultare quindi ridotta rispetto ai videogame del genere dove ci si costruisce un proprio carattere per poi farlo evolvere secondo la propria ispirazione, ma non è così perché al giocatore è lasciato un ampio margine di personalizzazione nell’ambito delle opzioni dialettiche e delle decisioni critiche. Il Geralt elettronico quindi, senza mai perdere la sua intima personalità e la sua anima composta a priori dai libri di Sapkowsky, abbraccia lo stile ludico di chi lo controlla e favorisce un dialogo tra personaggio e giocatore fondato sull’etica. Così il protagonista può essere gelidamente professionale, determinato solo dall’oro e dal desiderio, egoista oppure gentile, altruista e filantropo restando fondamentalmente lo stesso eroe e la «medesima» persona; si tratta solo di reazioni diverse a determinate situazioni che non sono tuttavia contraddittorie e non trasformano il personaggio in un burattino nelle mani del giocatore ma lo convincono di «essere» Geralt attraverso un sapiente lavoro di sceneggiatura.

È proprio la somma delle sue sceneggiature a rendere The Witcher III un videogioco unico nel genere per la facoltà di appassionare in ogni suo aspetto narrativo, anche quelli secondari, senza il rischio di creare smarrimento o noia. Essendo strutturato secondo il modello di un «open world» abbiamo quindi la possibilità di seguire una trama principale o ritardarne lo svolgimento decidendo di seguire decine di derive. Persino in videogiochi notevoli come Grand Theft Auto Ve Dragon Age Inquisition, per citare due opere architettate sulla libertà offerta da un mondo aperto, c’è la possibilità di sperimentare un senso di ripetizione quando si inseguono le missioni secondarie e l’obiettivo finale tende a perdere importanza. Qui, come in Red Dead Redemption, non avviene mai nulla di simile a causa della varietà e profondità con cui le derive dalla trama principale sono scritte, strutturate e integrate nella macrostruttura del gioco. Si può vagare in cerca di avventure opzionali per decine di ore e lo scopo finale non cessa mai di essere determinante, sviluppandosi così un affresco davvero travolgente.

 

Ogni deriva ha il suo valore unico perché è composta nello stile di una novella. Ad esempio, arriviamo in un villaggio e un uomo ci chiede di cercare la moglie smarrita nei boschi; si inizia così un’indagine che coinvolgerà un’altra donna e il suo amore segreto, l’esplorazione dei sotterranei di una tetra capanna, la lotta contro un licantropo e un melodrammatico colpo di scena. Oppure decidiamo di aiutare una vedova senza più tetto (è stata sfrattata) andando a liberare dai mostri la sua antica magione e là scopriamo che il suo amato scomparso fu murato vivo dal fratello. Ci sono moltissime di queste storie e ognuna ha la sua patetica bellezza che amplifica la suggestione di vivere un’avventura epica in una cornice grandiosa, truce e disperata, talvolta alleggerita dalle (rare) prestazioni sessuali e romantiche di Geralt con qualche bella, fantasiose parentesi erotiche e non pornografiche malgrado l’esibizione della nudità.

Se confrontato allo spessore narrativo il sistema di combattimento in terza persona di The Witcher III non eccelle e conviene, soprattutto per i più esperti, settare la difficoltà al massimo livello se si desidera una vera sfida. Tuttavia si tratta di un combat-system funzionale, gratificante quando ad esso si applica una strategia invece che menare fendenti a caso, poiché scegliendo la strada più dura bisogna «studiare» prima di ogni lotta, sfruttare al massimo il complesso sistema alchemico, equipaggiare il giusto potenziamento alla spada d’argento (utile contro i mostri) e a quella d’acciaio (valida contro umani e animali). L’indagine e lo studio di documenti e bestiari, uniti ad una saggia pianificazione, sono elementi fondamentali per sopravvivere al massimo della difficoltà e sublimano un combat-system che scegliendo il gioco facile risulterebbe meno divertente e più ripetitivo.
A causa della sua immensità The Witcher III Wild Hunt (uscito per Playstation 4, PC e XBox One) è penalizzato da qualche bug e sporadici, talvolta involontariamente comici, glitch. Ma gli artisti di CD Project Red, sempre generosi con il loro pubblico, li stanno risolvendo a furia di patch correttive. Considerando i grandi pregi del videogioco in questione e comparandoli con le suddette imperfezioni, con qualche difetto di giocabilità che rende l’azione del salto talvolta contorta e con un comparto grafico eccellente ma non sublime come promesso dai primi trailer, ci troviamo comunque di fronte ad una grande opera ludica che non diventa mai piccola anche quando la sua grandezza d’ideazione rischia di travolgere il risultato finale e le aspettative degli appassionati.

Geralt, in qualsiasi modo lo si interpreti, è un romantico, un sopravvissuto d’altri tempi e immaginari durante un’epoca in cui eroi e antieroi del cinema e dei videogiochi sembrano assomigliarsi tutti nello sfoggio di virilità, pragmatismo marziale, ingenuità e superficiale violenza.
Dalla Polonia con stile, tragedia e poesia, The Witcher III Wild Hunt è un romanzo interattivo, un tomo mostruoso, ibrido tra carta e numero, di personaggi, mitologie, ricordi, luoghi, sogni e incubi rilegato nella dimensione cruenta di una guerra poco fantasy e molto realistica dove la perfidia dell’essere umano va oltre quella dei demoni più terrificanti. Il viandante Geralt, nella sua numerica e letteraria purezza è come Parsifal, poiché siamo noi che giochiamo con la sua psiche a fornirgli la necessaria follia e infine a decidere se redimere un redentore o dannare un altro disumano attore di un’epoca tormentata.