Pomeriggio di domenica 9 febbraio, a Roma. Sul marciapiede che costeggia i giardini di via Carlo Felice, non lontano dalla Basilica di San Giovanni, è in corso un piccolo mercato all’aperto che non potrebbe essere più povero e informale. A terra, su teli di stoffa o plastica, sono esposte scarpe, borse e abiti usati, vecchi giocattoli, soprammobili démodé e altre cianfrusaglie. Il massimo del lusso è costituito da qualche cellulare arcaico. La mercanzia – è evidente – è in massima parte il prodotto di un’attività costante di scavo nei cassonetti dell’immondizia e di un’opera paziente di riparazione e lucidatura: un utile lavoro di riciclaggio, non c’è che dire.

È uno dei «mercatini degli zingari», come si dice qui, ma a vendere non sono solo rom. C’è anche qualche immigrato maghrebino. Uno di loro, un giovane harraga marocchino – bello, gentile, sorridente – mi racconta che tre mesi fa è approdato a Lampedusa, dopo il solito soggiorno drammatico in Libia. Giocava da dilettante nella squadra di calcio della sua città e credeva che in Italia avrebbe realizzato il sogno di diventare professionista. Invece fa una vita da clochard: dorme per strada e si arrangia vendendo qualcosa in mercatini come questo.

Rifletto su quanto siano utili in tempi di crisi, per chi vende e per chi acquista: gli acquirenti, perlopiù immigrati, non hanno l’aria di passarsela bene. Nel loro piccolo, penso, questi mercatini informali sono un modo efficace per contrastare «l’obsolescenza programmata e incorporata nelle merci», per dirla alla Serge Latouche. Per me e per i pochi altri non indigenti che si aggirano qui, è uno spazio di socialità che ti fa respirare, in una città sempre più inaridita di relazioni faccia a faccia. Sto osservando e meditando allorché, un po’ prima delle 18, fa irruzione una squadra di vigili urbani. Tutti fuggono, alcuni non fanno in tempo a raccattare la loro mercanzia. Quando esco dal chiosco, dove sono entrata un attimo per bere un caffè, al posto della vivacità del mercato c’è la desolazione di borse, valigie e oggetti abbandonati nella fuga.

Un numero sproporzionato di guardie municipali si aggira con l’aria di chi ha sconfitto chissà quale nemico. E già sono al lavoro un paio di operai dell’Ama. L’azienda municipale che si occupa dei rifiuti è di solito assai meno zelante, se è vero che Roma, anche in quartieri centrali, rigurgita d’immondizia (e di svastiche sui muri).

A un vigile in borghese, che sembra il capo della squadra, domando con un po’ di sarcasmo, lo ammetto, se non potrebbero riservare interventi così robusti e tempestivi – e di domenica!- a sconfiggere ben altre «piaghe» della città. Ne nasce una discussione vivace che oppone i miei argomenti non troppo legalisti a un’infilata di luoghi comuni para-razzisti: «Forse ignora che gli zingari sono ladri? E che bisogno hanno di vendere ‘sta roba se dal Comune percepiscono un regolare sussidio? Lo sa quanti milioni di euro ricevono dall’Unione europea? E poi vi lamentate degli stupri…».

Ribatto a ogni suo sproposito finché lui tira fuori quello che pensa sia l’argomento decisivo: «Una persona democratica come lei vorrebbe che ignorassimo l’opinione della gente?». Replico che un pubblico ufficiale, ancor più del cittadino comune, dovrebbe compiacere non l’opinione della gente ma la Costituzione e le leggi nazionali, comunitarie e internazionali, che gli vietano di esprimere pubblicamente opinioni razziste.

Un altro vigile, questo in divisa, interviene con marcato accento campano: «Lei è mai stata derubata dagli zingari?». Mi dispiace deluderla, gli rispondo, ma non mi è successo. Proprio mentre sto pensando come mai abbiano trascurato la più tipica delle retoriche razziste, mi grida infuriato: «E allora, se le piacciono tanto, se li porti a casa sua!». Ribatto che a casa mia ho già un «extracomunitario», da ben cinque anni. Pensi, aggiungo, è un «negro», come direbbe lei. Sconcertato, grida che comunque, se questi disgraziati mi piacciono tanto, a casa dovrei portarmene altri.

A dargli manforte interviene un donnone in divisa, ma, come gli altri, senza cartellino di riconoscimento: «Lo sa – mi urla, anche lei con cadenza campana – che gli zingari rubano i bambini?». A questo punto perdo la pazienza, le dico che un pubblico ufficiale non dovrebbe fare affermazioni così gravi e, mostrando la mia carta d’identità, le domando il suo nome, visto che non ha il cartellino. Mi manda a quel paese in malo modo e si allontana. Ne ho abbastanza e mi allontano anch’io.

Per concludere. Non pretendo dagli amministratori comunali romani che condividano il mio punto di vista sui mercatini informali, né la mia visione sostanzialista dei diritti fondamentali. Ma qualche domanda è necessaria: non li inquieta che abbiano tra i vigili urbani persone dalla mentalità fascista? Si sono mai posti il problema di educarli alla democrazia e al pluralismo mediante corsi obbligatori, magari svolti anche da qualche intellettuale rom?

Post scriptum. A proposito di legalità: tutti i «pubblici dipendenti a contatto col pubblico», recita una legge operante dal 13 febbraio 2010, hanno l’obbligo di esibire il cartellino di riconoscimento. Poiché, come sembra, alcuni vigili urbani di Roma si sottraggono a quest’obbligo, la mia notazione sull’accento campano è solo il tentativo di rendere quella squadra identificabile per gli amministratori.