Questa è la storia di un gruppo di ragazzi, di artisti formatisi a Roma, tra il 1958 e il 1968. Autodidatti o diplomati al Liceo artistico, sognavano di essere pittori o attori. Alcuni di loro sono morti giovani, in una consapevole autodistruzione. Centauri romantici, in una cultura massificante nell’Italia del boom, tra la Fiat Seicento e l’avvento della Televisione, progettavano forme, e avevano intuizioni profetiche». Si apre così Fiato d’artista, il noto diario-racconto di Paola Pitagora sugli anni trascorsi a Roma accanto a Renato Mambor e agli artisti del cosiddetto gruppo di piazza del Popolo, Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Fabio Mauri, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi. Al sodalizio di questi artisti nella Roma degli anni sessanta il Macro Museo d’arte contemporanea di Roma dedica oggi la mostra Roma Pop City 60-67, a cura di Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio e Federica Pirani, aperta fino al 27 novembre.
Pur con qualche limite nell’allestimento, che avrebbe meritato uno spazio più ampio e articolato dato il numero dei lavori proposti, l’esposizione permette bene di cogliere la natura particolare di queste ricerche, troppo spesso sommariamente raccolte sotto la definizione di «pop art romana». Un’etichetta che già nel 1967 Maurizio Calvesi definisce tanto «cumulativa» quanto «impropria», perché se stabilisce un ovvio parallelismo con la pop art americana, trascura di evidenziare le differenze di approccio all’immagine tra le due sponde dell’oceano. Differenze che si nutrono, come cerca di dimostrare la mostra e il ricco catalogo che l’accompagna, dal profondo legame di questi artisti con la città di Roma. Una città che manifesta, allora come oggi, resistenze profonde alla modernizzazione, così come gli artisti che vi operano ne dimostrano verso le influenze, spesso omologanti, delle ricerche internazionali.
L’esposizione si apre con un gruppo di lavori raccolti a esemplificare la tabula rasa compiuta da questi artisti alla fine degli anni cinquanta per stemperare il «pletorico magma» (Emilio Villa) della pittura informale. Prendendo in prestito un’utile ripartizione concettuale usata di recente da Gabriele Guercio, il loro lavoro attraversa allora una breve fase di sottrazione, in cui è messa in atto una cesura fra dato sensibile e opera d’arte. Opere come Metallo nero di Francesco Lo Savio, Oggetto verde di Mambor, Cementoarmato di Giuseppe Uncini, Bianco di Lombardo, pur se singolarmente articolate con l’inserzione di elementi spaziali e materici, si presentano come un succedersi di superfici monocrome. Da questo annullamento rigenerante prende subito dopo le mosse un’opposta tensione all’infiltrazione in cui il vuoto si «(ri)colma» e l’obiettivo dell’opera torna a essere quello di «inserirsi, infiltrarsi» nella realtà, «corrispondere alle sue articolazioni». Già dal 1960 questi artisti arrivano quindi a manifestare un’intenzione simile a quella dei colleghi americani: trarre dalla realtà dell’universo cittadino, come scrive Alberto Boatto nel suo fondamentale volume sulla Pop Art del 1967, «una nuova esperienza linguistica ed estetica, fissandola in un mondo esatto di forme». A Roma, inoltre, questo proposito di rifondare un nuovo linguaggio si arricchisce, come sottolinea Andrea Cortellessa nel saggio in catalogo, anche del rapporto con le neoavanguardie letterarie dei «novissimi» e del Gruppo 63.
«Dobbiamo vivere e conoscere solo questo mare atono di oggetti che ci circondano» scrive Goffredo Parise proprio mentre questi artisti trasformano le superfici vuote delle loro opere in schermi, campi aperti e specchi pronti ad accogliere e riflettere la città con il suo bagaglio di immagini. Sfilano allora sulle tele roboanti mezzi di trasporto, come il Camion di Titina Maselli o la Lambretta di Mambor; ritratti di star del cinema e della televisione, come in Esterno o Marilyn di Mauri, in Liberty della Fioroni e in Clairol n. 2 di Umberto Bignardi; sagome di monumenti, come l’Obelisco di Tano Festa; immagini tratte dalla storia dell’arte antica, come la Venere di Goldfingermiss di Ceroli, o ispirate alla storia più recente delle avanguardie in Futurismo rivisitato-Balla di Schifano.
È qui che risiede la prima grande differenza con l’arte americana: le immagini scelte non provengono solo dal mondo contemporaneo, ma comprendono anche immagini del passato, secondo una propensione alla citazione che proprio Boatto, recensendo la Biennale del 1964 dove la Pop Art trionfa con l’assegnazione del Gran Premio per la Pittura a Robert Rauschenberg, stigmatizza come conseguenza negativa di una «cultura che con i suoi simboli e le sue obbligazioni impedisce una forte presa sul mondo». Al contrario Calvesi ritiene che queste immagini siano per l’artista italiano parte integrante della ricognizione del quotidiano e riconosce un’attitudine «neometafisica» in quest’operazione di prelievo e spaesamento dell’oggetto, utile a collocarlo «fuori dalla rete usuale dei rapporti causa-effetto, dipendenza, vicinanza, in cui l’esperienza e la memoria ci hanno abituati ad inserirlo», così da accreditare il quadro, sulla scia della ricerca dechirichiana, come fatto puramente concettuale.
Diverso è anche l’uso che viene fatto dei nuovi media. L’artista pop adotta procedimenti tecnici dalla produzione industriale e se ne appropria con un tale rigore da preludere alla completa spersonalizzazione del gesto artistico che sarà tipica del minimalismo e dell’arte concettuale del decennio successivo. Anche gli artisti italiani impiegano alcune di queste moderne tecniche. Molti, ad esempio, usano il proiettore per riportare le immagini fotografiche sulla tela. Il risultato finale, tuttavia, non ha nulla a che fare con la seriale ripetizione delle immagini nel lavoro, ad esempio, di Warhol. Schifano, così come molti suoi compagni di strada, non assorbe passivamente le immagini, ma provocato «risponde con una critica». Questa critica si annida nel linguaggio stesso e nella sua capacità di far convivere istanze diverse e talvolta contrapposte, come a questi artisti avevano per altro insegnato a Roma maestri come Toti Scialoja e Alberto Burri. Così, ad esempio, proprio nei dipinti di Schifano raffiguranti le insegne della Esso o della Coca Cola, oggi purtroppo non in mostra, i colori nitidi dello smalto industriale sono corrosi da incompletezze e sbavature, e la forza evocativa del marchio è indebolita da inquadrature difettose. Così come nella scultura di Ceroli Fila, l’ordinato e omologante succedersi delle figure convive con le singole imperfezioni naturali del legno.
Allo scadere del decennio questo atteggiamento critico spinge l’arte a compromettersi ancor più con l’esistenza, sia veicolando contenuti esplicitamente politici, sia arrivando a mettere in crisi lo statuto dei linguaggi tradizionali. Opere come quella appena citata di Ceroli, con il suo utilizzo di un materiali poveri, i Cinque bachi da setola e un bozzolo con cui Pascali invade l’ambiente della galleria dell’Attico nel 1968, e le esplorazioni concettuali dei video di Luca Patella, chiudono idealmente la mostra, aprendo quello che sempre Boatto ha definito lo spazio dello spettacolo.