Nel Settecento i protagonisti di quel ricco sottogenere che s’intitola «Viaggio in Italia» furono i milord e i milordini impegnati nel Grand Tour tra i peccati e i piaceri italiani,come ha ben illustrato Attilio Brilli in Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (il Mulino 2006) e ora (con Simonetta Neri) in Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure (il Mulino «Intersezioni»). Agli avventurosi giovin signori si aggiunse una milady: Mary Wortley Montague, la curiosa, disinvolta, innamorata di Francesco Algarotti che in vana attesa di lui si inventò campagnola, curando cavoli e galline, nella bella tenuta nei pressi del lago di Como. Uno squattrinato intellettuale, Sterne, ci ha lasciato la più drammatica descrizione del momento cruciale del viaggio: il valico delle Alpi al passo del Moncenisio. «Le curve e i pericoli improvvisi – delle rocce – dei precipizi – delle difficoltà delle salite – degli orrori delle discese – delle montagne impraticabili – e delle cataratte…» (Viaggio sentimentale, 1768). Si smontavano le ponderose carrozze padronali e i signori erano caricati sulle spalle dei robusti montanari.
Al viaggiatore sentimentale di Sterne e ai suoi esperti connazionali seguirono i viaggiatori romantici: poeti, tisici, anche modesti intellettuali che pubblicando il diario o la memoria di quel viaggio, vero o immaginario, si garantivano almeno una citazione. Viaggiando spesso in carrozze pubbliche, pigiati tra italiani puzzolenti di aglio e di sudore, lamentavano che tanta bellezza d’arte e di natura fosse concessa liberamente a quegli indegni nativi – «diavoli» li aveva chiamati Smollett. Famoso era l’elegante poemetto di Samuel Rogers, Italy, pubblicato a Londra nel 1830, che testimoniava dell’attrazione e del timore a cui erano esposti i viaggiatori sul suolo italiano. «Sono a Roma! Spesso quando il raggio del mattino / visita questi occhi, mi sveglio ed esclamo / da dove mi viene questa grande gioia?». Ma più in là: «Un altro assassinio! Questa città venerabile, esclamai, che cos’è un covo di ladri e di assassini? Luigi! Dobbiamo partire al tramonto». Ma quando i cavalli sono pronti e Luigi tenta di svegliarlo: «Luigi, se mi vuoi bene, chiudi le tende».
Fu nella seconda metà dell’Ottocento che tutto cambiò. Nel 1845 John Ruskin arriva in Italia per la prima volta senza i genitori, e visita Pisa, Firenze, Lucca. A Venezia scopre il Tintoretto. L’anno successivo pubblica il secondo volume di Modern Painters che stabilisce i luoghi prescelti di un tour eccezionale tra le bellezze dell’arte italiana, con la guida del Murray (Handbook for Travellers in Northen Italy) come fido cicerone. Con The Stones of Venice (1851-’53) la nuova moda del viaggio in Italia è definitivamente stabilita tra i ruskiniani più giovani. «L’Italia sembra sia stata fatta apposta per avere un passato – scrive Henry James a Vernon Lee –, mentre gli altri paesi sembra che ne abbiano uno solo per caso e non amano confessarlo – come fossero serve con un figlio illegittimo». Nel 1860 George Eliot, dal lungo volto cavallino, e l’affettuoso George Henry Lewes, noto come l’uomo più brutto di Londra, arrivano in l’Italia e per tre mesi visitano in treno o in carrozza o in diligenza le maggiori città del nord; poi scendono a Pompei, Napoli, Amalfi… «Penso che Roma alla fine caccerà Maggie e il mulino dalla mia testa» – scrive lei che ha appena consegnato all’editore Il mulino sulla Floss, ricevendo un compenso di tremila sterline. Ora per la prima volta in italiano è pubblicato il fitto resoconto di quel viaggio: Ricordi d’Italia (1860), a cura di Franco Venturi (traduzione di Sara Grosoli, testo inglese a fronte, La Vita Felice, pp. 173, € 12,00), scritto al ritorno con l’ansia di non perdere nulla di quella esperienza straordinaria che darà frutti nel tempo a venire.
Benché sensibile alla bellezza quotidiana dell’ambiente, il narratore ha cancellato gli abitanti e ricorda solo i nomi altisonanti di coppie straniere. Al passo del Moncenisio, George Eliot – in realtà Mary Anne Evans, una signora di quarantuno anni che ha appena pubblicato il suo grande romanzo – siede vis à vis con un gigantesco soldato francese che le ha poggiato una pesante borsa contro le gambe, e le sono venuti i crampi. «Ma mi ripagò per quel disagio con le divertenti suggestioni del suo largo, stupido, bonario volto e con l’ingenuità di ogni cosa che disse e fece». Anche se George Eliot mantiene sempre l’aplomb maschile dell’autorevole narratore, Mary Anne – anzi Maggie, la più intima figurazione di se stessa – si affaccia quando la frenesia ruskiniana viene meno, e ritorna la fede evangelica dell’infanzia, il ricordo della campagna, di quella semplice vita. «Poi sostammo in un campicello … e forse gioimmo più nel vedere quei fiori selvatici dall’aria familiare che le novità più eclatanti». A Pompei fa un lungo elenco commosso di oggetti domestici e del loro uso. La stessa attenzione che riserba alla perfetta bellezza del grandioso tempio di Nettuno a Paestum: «… la cosa più bella, credo veramente, che avessimo visto fino ad allora in Italia. Possiede tutti i requisiti per rendere un edificio degno di nota; primo la forma. Quale perfetta soddisfazione e riposo per l’occhio nella calma ripetizione di quelle colonne; nelle proporzioni di altezza e lunghezza, della facciata e dei lati; la cosa giusta è trovata – non è ricercata in una pesante fatica dei dettagli o nell’esagerazione. Poi il colore… Molte piante accarezzano le rovine». Avevano acquistato una piccola biblioteca, A History of Rome di Liddell, «per riparare le lacune della nostra conoscenza storica», Storia della pittura in Italia di Stendhal, Handbook of Italian Painters di Kluger e la guida del Murray per il sud d’Italia.
A Venezia è deliziata dal suono del remo che affonda nell’acqua, quando non è coperto dallo scampanio delle tante chiese. «Sono contenta di scoprire che Ruskin considera il palazzo dei Dogi uno dei due edifici più belli del mondo.…». Il viaggio da Civitavecchia a Roma fu interessante: «dapprima un paesaggio irregolare, collinoso, poi una vasta pianura, spesso paludosa, punteggiata di asfodeli, popolata da bufali; qui e là un falcone o un altro lento uccello dalle grandi ali che fluttuava nell’aria e si posava. Finalmente giungemmo in vista di Roma, ma non c’era nulla di straordinario da vedere». Roma peccava di troppità, e si dispiegò doverosamente secondo le fitte pagine della guida. Al cimitero degli inglesi si commuove sulle tombe di Shelley e di Keats. L’opulenza cattolica, le superbe rovine, le vie strette e sporche del centro si impongono lentamente all’ammirazione di quella che era stata la giovane protestante traduttrice di Strauss, The Life of Jesus, Feuerbach, The Essence of Christianity, Spinoza, Ethics. Un giorno osservò divertita un gruppo di povera gente che stava a guardare un leone addormentato di Canova con ammirazione e spavento quasi infantile, mentre con aria di sfida toccavano i suoi denti. Al ritorno scrisse a un’ amica: «Abbiamo fatto un viaggio indicibilmente piacevole – uno di quei viaggi che sembrano dividere la vita in due, tali sono le nuove idee che suggeriscono e le nuove vene di interesse che aprono». E così fu, nei romanzi che scrisse dopo quella data. George Eliot si concesse un’unica passione, ha scritto Virginia Woolf, la passione del passato («the romance of the past» ).