Il piccolo centro di Calcata, poco distante da Roma, è l’«osservatorio» dal quale Paolo Portoghesi guarda, da circa vent’anni, le vicende romane. Con la Capitale, come lui stesso ha spiegato in Roma/amor (Marsilio, 2019), il paese arroccato su una montagnola di tufo, ha un’«affinità geologica». Nel Pliocene, infatti, dove ora scende il fiume Treia, scorreva il Tevere. Perciò «il paesaggio di Calcata è simile, in proporzioni ridotte, a quello nel quale Roma nacque come unione di piccoli insediamenti, arroccati sulle colline».

Portoghesi ci riceve in uno spazio raccolto dove tra libri, disegni e alcuni mobili da lui creati, il suo conversare calmo ed esatto, dispiega le ragioni della modernità dell’antico con l’ottimismo del suoi pensieri rivolti verso il futuro.

Paolo Portoghesi

IL COLLOQUIO INIZIA dai recenti fatti di cronaca che hanno visto la denuncia delle gravi trasformazioni subite dalla sua Villa «Papanice» a Roma. «Io ho assistito – racconta ripercorrendo le tappe di questa trasandata cura del moderno nella Capitale – alla distruzione pressoché sistematica delle testimonianze dell’Art Nouveau: la sostituzione di uno splendido villino a piazza Galeno, la scomparsa della galleria con il cinema davanti al Palazzo del Viminale, la villa Ximenes terribilmente manomessa anche se salvata. È la mania di sottovalutare le testimonianze di momenti storici che seppure non siano stati determinanti per la cultura romana, tuttavia hanno avuto un’enorme importanza, come ad esempio il Bal-Tik-Tak di Balla».

È stato un caso se due anni fa, durante i lavori di ristrutturazione, è stata scoperta la decorazione futurista di Giacomo Balla al piano terra di Villa Hüffer, lungo via Nazionale, dipinta quando negli anni Venti era un cabaret.

«Di fronte alla modernità non c’è stata la capacità – prosegue Portoghesi – di seguire quello che era poi l’impulso della cultura. Purtroppo Roma ha dimostrato di avere poca sensibilità per le cose della modernità e quindi non c’è da meravigliarsi che sia stato tollerato un abuso a Villa «Papanice» con l’eliminazione della scala esterna, della recinzione e delle balconate fatte con tubi paralleli. Quando nacque nel 1968, voleva essere a suo modo una protesta contro la città scegliendo come interlocutori i bambini. Un’architettura che doveva provocare nelle persone non ancora compromesse con la nostra civiltà urbana, un desiderio e una speranza in qualcosa di diverso, qualcosa di sorridente. Ho sempre cercato attraverso l’architettura di esprimere la gioia. Un peccato che un edificio nato da questa intuizione sia stato massacrato. Ebbe anche un certo successo con il cinema, scelto per set di film da registi come Scola e imitato persino negli interni in un cinema a Khartoum, come mi è capitato di vedere quando andai lì per il progetto del suo aeroporto».

Purtroppo Villa «Papanice» non è un bene artistico vincolato. La ragione sembra derivi dall’impossibilità per la soprintendenza di compiere i dovuti sopralluoghi poiché sede dell’ambasciata di Giordania. Chissà se ciò risponde a verità.

Da questa incuria localizzata è naturale che la nostra riflessione si estenda su Roma-città metropolitana, che Portoghesi immagina poeticamente con le sue «città figlie» che dall’Appia antica all’area golenale del Tevere fino a Tor Sapienza e all’ex aeroporto di Centocelle, comprendono la Valle dei Casali, villa Pamphili e le aree verdi dell’Aniene. Un «girotondo» di insediamenti immaginabili come gli «anelli di Saturno». «Roma – rileva Portoghesi – non ha bisogno di espandersi. Ha bisogno invece di assorbire le sue città figlie attraverso un piano che dovrebbe farle riconoscere come tali dotandole di servizi e luoghi di incontro».

QUESTE REALTÀ suburbane, seppure vi siano incongrue edificazioni moderne, hanno elementi di qualità che sono il paesaggio agricolo, la presenza di antichi fabbricati e tracciati che offrono interessanti opportunità per il loro sviluppo. Occuparsene significherebbe scartare quelle strategie urbanistiche che facendo riferimento ai circuiti internazionali, come ad esempio network perseguono la finalità dell’alienazione del patrimonio immobiliare pubblico come accade a Milano e che Roma superficialmente emula.

«Questa situazione mi preoccupa molto – torna a chiarire l’architetto e storico romano – perché è un disegno dall’alto, mentre credo che solo con la partecipazione si possa salvare la periferia. Sarà pure una vecchia mania, ma ci sono delle esperienze rilevanti che lo dimostrano come al Trullo. Dovunque è visibile un movimento dal basso di grande spessore. È assurdo che se ne perda l’occasione che ritengo storica. Prendiamo i poeti der Trullo, i Metroromantici, sono un fenomeno di enorme interesse che fanno di Roma una città stranamente vitale che si porta dietro l’eredità di un grande personaggio qual è stato Pasolini».

SE DALLA PERIFERIA si volge lo sguardo al centro storico della Capitale non si può che osservare l’anacronistico persistere di quelle funzioni legate alle istituzioni governative e della politica che il progetto del Sistema direzionale orientale negli anni Novanta pensava di risolvere decentrandole e sul quale anche Portoghesi ragionò con Edoardo Salzano, Lucio Passarelli e Pierluigi Spadolini.

«Quell’ipotesi di decentramento finirà per diventare necessaria. Le istituzioni hanno bisogno di rinnovarsi in profondità. La vicenda dello Sdo è di un’operazione fatta un po’ in retrospettiva. Il Parlamento si è comprato mezzo centro storico mentre avrebbe potuto creare una città politica. È vero che si sono restaurati diversi edifici, ma se ne sono rovinati degli altri. Ormai questo processo di trasformazione è stato accettato e ha assunto una rilevanza spaventosa con il fatto che il centro è diventato invivibile dalla presenza delle istituzioni politiche e inadeguato per un turismo culturale serio e non endemico. Ho lasciato Roma per questo peggioramento progressivo. Forse sarei dovuto andare a vivere in periferia, ma ho scelto il paese perché la natura è una grande consolazione».

È DALLA CONOSCENZA della natura e della storia che il progetto trova le sue ragioni e significati. Disconoscerne l’importanza è la causa attuale del disinteresse per la città, come dimostrano le pratiche diffuse di gentrificazione e il ricorso ai linguaggi dell’international style per torri e blocchi edilizi: i soli modelli che il capitale finanziario sembra riconoscere.

«Lo sforzo della mia generazione è stato convergente sull’esigenza di considerare la storia quale strumento fondamentale di giudizio, quindi il mezzo che può cambiare il mondo. Alla fine, credo che l’uomo si renda conto di ciò che migliora la sua vita, quindi considero la situazione nella quale ci troviamo oggi, provvisoria. Se l’uomo vuole salvare la sua civiltà, deve cambiare il suo stile di vita, rinunciare al consumismo, allo sviluppo della tecnologia che impone i suoi ritmi e la sua logica. In futuro, tutto ciò causerà gravi fenomeni di disoccupazione, quindi la gente si ribellerà scoprendo la necessità di cambiare stile di vita. La natura entrerà in scena con un potere superiore a quello del capitale, come abbiamo avuto evidenza con il coronavirus, dimostrandoci che la sua forza può metterci in ginocchio. Non per essere profeta di sventura, ma la natura continuerà a influire sulla vita dell’uomo. La storia, se vogliamo migliorare, è indispensabile poiché è l’unico strumento di giudizio».

«PURTROPPO gli studi storici languono abbandonati alla filologia e alla carriera universitaria che non riconosce il merito – conclude Portoghesi -. Dopo averla insegnata per molti anni, oggi insegno geoarchitettura. Credo fermamente, infatti, che l’architettura debba cambiare per prima e secondo altri criteri di sostenibilità che non sono quelli propagandati, ad esempio, a Milano».

La conversazione termina con la comune convinzione che nonostante l’avversità dei tempi c’è la necessità e l’urgenza di agire sempre con entusiasmo e passione. Magari della stessa intensità che Paolo Portoghesi infaticabilmente ancora mette nelle sue invenzioni architettoniche ispirate dalla natura e dalla storia.

(con la collaborazione di Alfredo Passeri)