In alcune capitali europee, quando si è messo mano a grandi trasformazioni urbanistiche si è fatto riferimento alla «scienza urbana», a come intervenire su quelle specifiche parti che, trasformandosi, avrebbero modificato l’intera città. Non come quando si è intervenuto con edifici spettacolo per creare «città evento»; quelle dove l’architettura è «il prodotto dell’incontro tra la scala mobile e l’aria condizionata, concepito in un’incubatrice di cartongesso» (Koolhaas), ma con progetti a larga scala in aree centrali. Solo qualche esempio nella seconda metà del novecento: Les Halles di Parigi, la terza sistemazione del centro di Mosca, la Berlino ovest riprogrammata «centralmente» prima dell’unificazione. Luoghi che, pur facendo oggi parte dell’immaginario complessivo di quelle città, non reggono il confronto con il «Progetto Fori». A Parigi l’area non è estesa, a Mosca non ci sono reperti archeologici, a Berlino il programma della trasformazione faceva riferimento, sostanzialmente, all’espansione ottocentesca della città.

«Progetto Fori»: archeologia e urbanistica

Viene da lontano, visto che i primi a scavare nell’area dei Fori furono gli archeologi di Pio VII e che i lavori proseguirono sia sotto l’amministrazione napoleonica che con il nuovo governo italiano. Fu solo però nel 1978 – quando la via dell’Impero (oggi Fori imperiali) era stata tracciata da tempo (1932) e sembrava non dispiacere neppure troppo alla Repubblica che l’usava (usa) come location per la propria esibizione muscolare in occasione del 2 giugno e collettore del sempre crescente traffico automobilistico – che l’allora Soprintendente archeologico Adriano La Regina pose in modo esatto i termini della questione urbana. «Nel giro di pochi decenni perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana», scrisse. Presentando una serie di rilevamenti e studi che dimostravano come, proprio in quell’area, si concentrasse un’altissima concentrazione di smog tale da determinare la corrosione dei marmi, lanciò così il progetto in tutto il suo significato complessivo: «Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città».
Da allora non è vero che, come dice il neo sindaco Marino, in 36 anni non si è fatto nulla. Si è fatto, invece, troppo e troppo poco. Troppo perché si è redatto un Piano regolatore di «offerta» verso il mercato, invasivo e sovradimensionato; troppo poco perché, così facendo, si è sancita la rinuncia definitiva alla pianificazione, saldando di fatto anche questo ultimo strumento a quanto si era andato facendo per tutto il novecento. È il Piano Regolatore di Veltroni ad aver condannato il Progetto Fori. Non perché non lo comprenda, ma perché ha scelto di non intervenire su quella che, scritta da Adriano La Regina come «riorganizzazione della città», andava letta come «idea di città».
Il Progetto Fori metteva in discussione su scala urbana, con l’assetto viario della città, il muoversi e l’abitare. Raccogliendo l’invito del Sindaco Argan, «o i monumenti o l’automobile», non lanciava anatemi o crociate ideologiche contro le macchine, ma proponeva di allontanare da questo «tesoro», non scoperto, ma ritrovato, le funzioni che, svolgendosi all’intorno, le attirano.
Non dovette sembrare troppo poco ai molti che iniziarono a lavorare intorno questo tema per almeno un decennio (Cederna, Benevolo, Nicolini, la medesima Soprintendenza Archeologica) per lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e l’esplorazione archeologica, per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano. Non solo una straordinaria campagna di scavo, ma la convinzione progettuale di ridefinire ampliandolo il centro storico con la conseguente mission di «arricchire Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città; e con il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane» e giungere alla «creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra – moenia del parco archeologico centrale» (A. Cederna e altri: Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica. Camera dei Deputati. X legislatura aprile 1989).

Roma non si è costruita come metropoli

Rinunciando a far coincidere l’idea di metropoli con la realizzazione di un grande progetto identitario, all’interno del quale ripensare le forme stesse della metropoli, non ha fatto da argine proprio alle più devastanti forme metropolitane che, da allora, hanno iniziato a propagarsi nella città. Ad iniziare dall’arrendersi, senza alcuna condizione, a quei fenomeni della rendita immobiliare che il piano regolatore non sa contenere, che anzi a volte incoraggia, e che hanno trasformato l’intero territorio comunale in merce, ingoiato come è da una strategia di comando che taglia servizi, ogni assistenza, nega diritti, interviene direttamente sulla vita di ognuno di noi dragando denaro (facendo cassa) dall’annientamento della città pubblica.
Oggi quel progetto si riduce ad una soluzione «viabilistica» che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla. Per realizzarlo serve denaro e finanziamenti appropriati, certo. Bisognerà programmarli e i soldi non ci sono, e allora? Allora si potrà fare, facendo una scelta mai fatta a Roma: legare tra loro gli interessi scientifici, quelli urbani e quelli sociali. Si potrà fare pensando proprio alla realizzazione, da subito, del Progetto Fori come risposta dei cittadini al processo di espropriazione da parte del mondo economico finanziario che, operando offshore anche rispetto alle forme di rappresentanza, vogliono continuare a strangolare Roma. Si potrà fare con un atto d’indirizzo preciso: non riconoscere il debito immane di Roma Capitale, che si frappone alla realizzazione di questo progetto.