In questi giorni mi è tornato spesso in mente Umberto Turco, lo scenografo di Roma città aperta. Raccontava: «Roma era livida… era de un grigiore e de ‘na tristezza che se esprimeva proprio nell’atmosfera, se respirava. Sembrava che proprio l’aria fosse intrisa de tristezza, capito? Era ‘na Roma dove tu vedevi la gente che fuggiva, magra, triste, capito? Era questa, ‘na Roma sofferente … pare che ‘n c’era più luce… Poi Roma è rimasta così, pe’ tutto er periodo de l’occupazione, ‘na città triste. Era ‘na Roma grigia. È quella Roma là, la Roma delle Fosse Ardeatine».

La memoria non è solo custodia del passato; è soprattutto il rapporto che col passato ricostruiamo nel presente. Da tre quarti di secolo, le Fosse Ardeatine continuano a tornare in modi sempre nuovi. Ricordo la donna che dalle finestre delle case occupate del Nuovo Salario nel 1970 le ricordava gridando ai poliziotti che la cacciavano via, come figura archetipica dell’ingiustizia assoluta : «Dieci italiani per un tedesco, così facevano» (e il poliziotto che le rispondeva: «Abbiamo ricevuto un ordine e lo dobbiamo eseguire». Anche quell’ordine fu puntualmente eseguito).

Oggi la Roma delle Fosse Ardeatine e dell’occupazione tedesca, la Roma che lo storico Cesare De Simone chiamava «città prigioniera», è anche la prefigurazione delle nostre giornate di solitudine, coprifuoco, paura, presenza inafferrabile della morte. Mi torna in mente anche Rosario Bentivegna, anche lui in forma diversa.

Non dimenticherò mai il partigiano combattente di via Rasella, ma adesso penso anche al ragazzo che aveva scelto medicina pensando che se verrà la guerra salverà vite invece di uccidere e al giovane medico che affonda le mani nelle ferite del bombardamento di San Lorenzo: «E stemmo a lavorare così tutto il pomeriggio, tutta la sera, ci buttammo da una parte a dormire per terra per qualche ora poi ricominciammo e poi mentre dormivamo continuavano ad arrivare feriti e così fino alla sera del giorno successivo». La violenza della storia lo costringerà comunque a usare le armi; ma la sua Resistenza comincia prima, con quella scelta di cura e di vita che oggi ci appare altrettanto necessaria e ancora più coraggiosa.

Penso ai partigiani combattenti, ma penso anche alla resistenza senz’armi che cominciava con la non collaborazione con l’invasore, con l’ostinazione, uno per uno, famiglia per famiglia, casa per casa a non rassegnarsi e – come ha scritto Antonio Parisella – «sopravvivere liberi», resistendo psicologicamente, prima ancora che materialmente, coscienti che la salvezza di ciascuno sta nella salvezza di tutti. E penso a Maria Michetti, staffetta partigiana e organizzatrice delle donne, che raccontava con pudore e con dolore l’impatto della tensione e della sofferenza sul suo corpo di donna.

E soprattutto tornano alla mente i 335 uccisi in quelle buche tenebrose – uccisi, non dimentichiamolo, non da una minaccia naturale ma da una disumanità umana. Li dentro c’è l’Italia intera: tutte le età, tutte le regioni, tutti i mestieri, tutte le scelte politiche e religiose – e se gli uccisi furono tutti uomini, sopravvivere e raccontare toccò alle donne. E comunque una donna, Fedele Rasa, fu uccisa quel giorno mentre faceva erba vicino al luogo della strage.

Dicono che oggi abbiamo ritrovato, o dovremmo ritrovare, un poco di senso di comunità, di unità fra noi. Ebbene, se c’è un monumento all’unità nazionale, se c’è una storia e un luogo che ci invitano ad essere un paese unito e un paese che resiste, questo sono proprio le Fosse Ardeatine.