Il tradimento ad un pezzo importante della propria storia di Radicale, Roberto Giachetti, al momento unico candidato alle primarie del Pd per il Campidoglio e tuttora militante del partito di Pannella, lo racconta ai microfoni di «Un giorno da pecora», su Radio 2: «Io lo trovo abbastanza singolare – dice – Il referendum a Roma è consultivo, mi domando come mai non sia stato proposto e fatto prima che si prendesse la decisione. Dopodiché io non ho nessun problema, raccolgano le firme per il referendum. Io non firmo perché sono convintissimo della candidatura di Roma».

E pensare che solo il giorno prima, durante il lancio ufficiale della raccolta delle prime mille firme per il referendum Roma 2024 promosso da Radicali italiani e Radicali Roma, Emma Bonino rispondendo alle domande di un cronista aveva detto: «Mi sembrerebbe difficile, nella storia politica di Roberto Giachetti, individuare una qualunque motivazione di diniego al metodo refenderario. Mi sembrerebbe abbastanza originale un “no” a questo metodo o alla consultazione popolare».

Con la stessa sicurezza, anche Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, lo aveva escluso. E così, se non una rottura con i suoi compagni di sempre, quella del candidato sindaco preferito di Matteo Renzi è di certo una sconfessione alla battaglia referendaria sulla candidatura olimpica dell’Italia lanciata dal governo bipartisan. Una presa di posizione che in ogni caso non cambierà i rapporti del vicepresidente della Camera con i Radicali anche se, spiegava il giorno prima Magi, «il nostro apporto a una candidatura di Giachetti può essere utile se non è automatico e incondizionato».

Ora però l’amarezza c’è: «All’amico Giachetti voglio ricordare che la proposta di referendum noi l’abbiamo fatta subito, nell’estate del 2015, quando l’Aula del Campidoglio si preparava a votare sulla candidatura. E invece dovrebbe- continua Magi – chiedersi perché non siano state le istituzioni stesse a promuovere una consultazione popolare prima di prendere posizione, sull’esempio di città quali Amburgo, Boston, Monaco o Oslo?».

Per i Radicali, si sa, il referendum è lo strumento d’eccellenza per la partecipazione democratica: «Per noi questa è soprattutto l’occasione per aprire un grande dibattito pubblico sui pro e i contro», aggiunge Magi. Ma l’iter per arrivare al voto, quando l’iniziativa non è delle istituzioni, è lungo: le prime mille firme che il comitato promotore sta raccogliendo (anche su referendumroma2024.it) servono per depositare il quesito in Campidoglio, che nel giro di un mese dovrà decidere l’ammissibilità. Solo da quel momento i proponenti avranno trenta giorni per le altre 28 mila firme necessarie. Poi un anno ancora di attesa.

Ad occhio e croce, se tutto va bene, i romani hanno tempo fino alla primavera del 2017 per farsi un’idea del rapporto costi/benefici e per potere esprimere un parere nell’urna. Giusto in tempo per avvisare il Comitato olimpico internazionale che il 13 settembre 2017 deciderà quale città si aggiudicherà i Giochi 2024.

Nel merito, i Radicali italiani lo hanno detto chiaramente: nessuna contrarietà pregiudiziale né alle grandi opere (Bonino per esempio si è sempre detta favorevole all’Expo) né alle Olimpiadi. «Con il referendum vogliamo assicurarci un percorso trasparente e benefici certi per la città».

Però i problemi e le perplessità sono tante. Magi li elenca, in ordine sparso: «Lo studio di fattibilità promesso a dicembre 2014 “entro due o tre mesi” da Renzi non si è ancora visto; l’Italia ha appena finito di pagare il mutuo per le opere dei mondiali di calcio del 1990; Montezemolo e Malagò tornano sul luogo del delitto, a Tor Vergata, dove dovrà sorgere il villaggio olimpico e dove è già previsto che il consorzio guidato da Caltagirone, grazie ad una concessione esclusiva, completi la realizzazione del campus universitario» pensato inizialmente per rendere candidabile la capitale alle Olimpiadi del 2016.

«Una scommessa molto rischiosa», la definiscono i Radicali italiani nel dossier che accompagna la raccolta firme. «Tra budget preventivi che sistematicamente esploderanno e opere che non saranno completate, il rischio è che sia una stangata che si ripercuoterà sulle tasche dei cittadini per venti o trent’anni». La chiamano la «maledizione delle Olimpiadi», ma la superstizione non c’entra.