Troppo ingombranti, e anche troppi. Dopo aver lanciato Verdini, Renzi non può più fermarlo. La frana del gruppo di Forza Italia è incontenibile, il gruppo dei nuovi renziani, berlusconiani fino a un minuto fa, si gonfia come un pallone e non eccelle in discrezione. Al senato nel rodeo della riforma costituzionale i verdiniani intervengono sempre, rivendicano la loro presenza in maggioranza, ripetono imbarazzanti attestati di stima per Renzi, poi finisce che si scatenano in gesti volgari contro una senatrice dei 5 Stelle. Protagonista Lucio Barani, il craxiano che conquistò il suo quarto d’ora di celebrità alzando ad Aulla (città di cui era sindaco, nella Lunigiana) la statua del latitante di Hammamet (poi dovettero venderla all’asta).

La senatrice Lezzi, come tutti i suoi compagni grillini a turno, sta intervenendo contro la compravendita dei senatori. Barani si porta un dito in bocca e fa il gesto del sesso orale, ripetutamente. Poi nega. Ma lo hanno visto in tanti. Proteste, Grasso sospende per un po’. Il Pd arrossisce nell’intervallo. Poi il capogruppo democratico Zanda fa un discorso del genere «tutti dovrebbero abbassare i toni». Barani nega ancora. I suoi lo difendono. Tra i quali il verboso cosentiniano D’Anna, quello che qualche giorno fa ha spiegato che loro, i verdiniani, sono le sentinelle della «catarsi renziana». Colpi pesanti per l’immagine del premier. Che ha riportato a casa la minoranza Pd, i numeri lo dimostrano, non perché ne avesse bisogno per far passare la riforma ma perché voleva nascondere il cambiamento di maggioranza.

Ma i verdiniani non si nascondono. Anzi cercano i riflettori. E si infilano anche dove non dovrebbero. Anche in un intervento assai contegnoso della presidente della prima commissione Finocchiaro, che difende il compromesso della quasi elezione diretta dei senatori, quello in base al quale la minoranza Pd non è più un problema. Emendamento, dice, firmato da «Finocchiaro, Schifani, Zeller, Zanda e D’Anna». Ma D’Anna è appunto il capobanda verdiniano che avrebbe volentieri firmato, però il Pd l’ha pregato di non farlo. Invece la firma vera è della senatrice D’Adda, rappresentante della minoranza Pd, onestamente esclusa dall’inconscio della senatrice Finocchiaro. Il resoconto stenografico del senato è già stato corretto.

Va a finire che l’insulto di Barani serve alla maggioranza, nella quale Barani ormai si è sistemato, per mettere sotto accusa le intemperanze dell’opposizione. Zanda accusa Grasso di essersi fatto sfuggire l’aula di mano, concedendo troppa parola alle minoranze. Grasso convoca l’ufficio di presidenza per lunedì. Il clima è favorito dalla distrazione degli osservatori, che sui giornali si indignano perché l’opposizione invece di discutere nel merito della riforma costituzionale si accanisce sui regolamenti. Aiuta anche un intervento di giovedì sera del senatore Chiti, il protagonista dell’accordo interno al Pd per conto della minoranza non ne può più delle trovate di Calderoli, degli interventi sull’ordine dei lavori, dei richiami al regolamento, insomma dell’ostruzionismo. Osservazione strabica: la rissa parlamentare è l’unico strumento che la maggioranza ha lasciato all’opposizione, avendo firmato accordi altrove. Il merito è rimasto al Nazareno ai tempi del patto con Berlusconi e poi della direzione Pd, al limite a palazzo Chigi nei vertici tra governo e capigruppo democratici. Di merito in parlamento si doveva discutere nelle commissioni, ma Renzi non l’ha concesso e Grasso l’ha lasciato fare. Allegramente la presidenza del senato ha consentito ogni violazione del regolamento, il Pd l’ha incalzata a fare sempre di più, poi entrambi si sono accorti che il clima d’aula non è il massimo. Non c’è lo spirito costituente. C’è Verdini, però, e c’è Barani con la sua mimica.

Servono. I tabulati delle (poche) votazioni lo dimostrano. Gli emendamenti della minoranza vengono tutti bocciati con almeno 171 voti, dieci in più della maggioranza assoluta che sarà richiesta in seconda lettura (quindi dopo che la riforma tornerà dalla camera) perché la legge costituzionale possa passare al giudizio dei cittadini con il referendum (che si farà non prima dell’autunno 2016). Solo in un voto il governo brilla meno, ed è guarda caso l’unico voto segreto che Grasso decide di concedere. Emendamento Calderoli sulle minoranze linguistiche che se approvato avrebbe alluso all’elezione diretta dei senatori. L’esecutivo in aula non si sente sicuro e finisce che si rimette all’aula (e pazienza per la coerenza). Vince comunque, ma con 160 voti contrari, uno in meno della maggioranza assoluta.

La giornata agitata non consente di votare l’emendamento del compromesso sull’articolo 2, rinviato a oggi. Quando è ormai chiaro che la norma transitoria in base alla quale il nuovo senato sarà comunque eletto dai consiglieri regionali – senza nessuna indicazione men che meno vincolante dei cittadini – non potrà essere toccata. Per la minoranza Pd potrebbe essere un problema. Dovrebbe.