La tesi più diffusa riguardo la nascita del rock’n’roll, con tutto quello che ne è scaturito sino ai giorni nostri, fissa la data al 5 luglio 1954. Quel giorno di settant’anni fa, nel piccolo studio della Sun Records a Memphis, Elvis Presley registrava le sue prime tre canzoni da professionista. Una di queste era That’s All Right. A quella data generalmente viene affiancata quella del successivo 10 luglio, quando Bill Haley e i suoi Comets incidono Shake, Rattle and Roll. Suoni ruvidi, ritmo swingante, la voce che singulta. Mai dei musicisti bianchi avevano suonato così. Ed è questo il punto: dei musicisti bianchi. That’s All Right (aggiungendo Mama nel titolo) l’aveva scritta un bluesman nero, Arthur «Big Boy» Crudup, otto anni prima. Shake, Rattle and Roll è un rhythm and blues di Jesse Stone, inciso per la prima volta da Big Joe Turner and His Blues Kings. C’è però chi dice che il primo singolo di rock’n’roll fosse Rocket 88 del 1951, scritto da Jackie Brenson e portato al successo da Ike Turner (quello che insieme a Tina avrebbe poi dato una bella scossa al soul). Qualcun altro parla di un tale di New Orleans, Roy Brown, che nel ’47 registrò Good Rockin’ Tonight (leggenda vuole che Elvis, consapevole di aver rubato con tanta spudoratezza da Brown, trovandosi un giorno faccia a faccia con lui gli abbia firmato seduta stante un assegno a titolo di risarcimento). Già, c’è poi il brano Rock and Roll del 1948, composto da un ex boxeur e sassofonista di Detroit, Wild Bill Moore. Andiamo avanti? Del 1952 sono Train Kept a Rollin’ di Tiny Bradshaw (che gli Yardbirds non avranno bisogno di irruvidire più di tanto per riproporla in tonalità garage proto hard) e Hound Dog, scritta da Jerry Leiber e Mike Stoler per Big Mama Thorton e che diverrà uno dei cavalli di battaglia di Elvis. E c’è pure qualcuno che sostiene che il primo disco di rock’n’roll sia una registrazione del 1899 vergata su un cilindro di cera nera, All Coons Look alike to Me, di un tal Arthur Collins. Insomma, non sono stati né Haley né Presley a inventare il rock’n’roll, né altri bianchi. E non è stato inventato nel 1954. Stiamo parlando semplicemente delle prime interpretazioni di artisti bianchi di un sound che era già ben consolidato da musicisti neri almeno una decade prima.

QUELLA RECENSIONE
La prova di questo assunto si può ritrovare anche nella recensione del primo 45 giri di Elvis apparsa sul numero del 7 agosto 1954 di Billboard: «Presley è un nuovo, efficace cantante che dovrebbe avere un buon impatto sia sul mercato del rock’n’roll che su quello del rhythm’n’blues». Dal che si deduce che il termine rock’n’roll era già in uso. Insomma, che le origini siano blues non c’è dubbio; che gli ammiccamenti, i doppi sensi fossero di matrice nera è accertato. Non è stato necessario creare una nuova musica, che già girava nell’aria, ma trovare qualcuno che la sdoganasse, togliendola al «race market» della comunità nera e consegnandola come un regalo liberatorio alle grandi masse bianche. Insomma, il nero Jesse Stone aveva già scritto Shake Rattle and Roll, in cui decantava le forme della sua ragazza in sottoveste. Un po’ troppo per l’America stile Happy Days. La versione bianca della stessa canzone incisa da Billy Haley operava una vera riconversione semantica e le doti della ragazza diventavano culinarie. Non è dunque la musica che è nuova, e neppure è il nome che le viene dato è una primizia: in un modo o nell’altro è tutta farina del sacco afroamericano. Da un punto di vista musicale, il rock’n’roll è una variante (veloce) del blues. E in origine l’espressione «rocking» viene dal gospel, ed è riferito a una forma di «rapimento spirituale» e, successivamente, a forme di coinvolgimento ben più carnali. Per cui anche la trasgressione implicita nell’idea di «rock and roll» certo non è della puritanissima America bianca. La batteria? Non ne parliamo. La scoperta del ritmo per la cultura dell’Occidente avviene, così come la conosciamo oggi, soprattutto grazie all’incontro con l’Africa attraverso gli schiavi neri trascinati nei campi di cotone, ed è una delle grandi novità del secolo scorso, visto che ha fornito le basi su cui poggia la forma-canzone come la conosciamo oggi.
L’elettricità? Anche quella, da un certo punto di vista, è roba da neri. Un signore chiamato Jimi Hendrix ebbe ad affermare: «Se i neri delle piantagioni avessero potuto suonare il loro blues con la chitarra elettrica l’avrebbero fatto». Non è un caso sia Hendrix a dirlo, quello che la sua Fender l’ha addirittura incendiata sul palco del Monterey Pop Festival. L’elettricità trasforma la chitarra in una sorta di scettro sciamanico, è dispensatrice di energia, è lampo e fulmine, è magia. Per i bianchi una chitarra elettrica era solo uno strumento amplificato; per i neri era sia potenza, fiamme e fuoco, ma anche distorsione del suono, e pertanto invenzione. Nonché, alla fine, la scintilla che ha dato il via al grande movimento catartico chiamato rock, il primo simbolo dei giovani intesi come soggetti sociali.
Per la prima volta musica, parole, gesti, dollari, sospiri, classifiche, chitarre, strategie di marketing e gestione dell’immagine diventavano una cosa sola. Il rock’n’roll fu il grande balzo del fatturato della musica (213 milioni di dollari spesi in dischi nel 1954 e poi – boom – 603 milioni nel ’56). E soprattutto rappresentò il più grande sdoganamento culturale del Novecento scippando ai neri una delle loro più clamorose invenzioni. Nel mercato discografico statunitense del secondo dopoguerra – che allora dettava i tempi del mercato mondiale – la musica nera era certo sempre meno confinata nella comunità di origine, ma le barriere razziali erano comunque ancora alte. E così, come disse Malcolm McLuhan, il rock diventò «un fenomeno elettromagnetico che avvolge il pianeta», cosa che a un nero non sarebbe mai stata consentita. Ecco i nomi che hanno fatto la storia del rock’n’roll (e i dischi per ripercorrere quell’epopea).

Elvis Presley, Sunrise, The Sun Years (Rca/Bmg)
Come succederà poi per i Beatles, Elvis prese su di sé il peso di un cambiamento epocale, diede la sua faccia a uno snodo fondamentale, piazzato tra un prima, costellato di crooner semi lirici, e un dopo fatto di suoni nuovi. Elvis fu l’uomo giusto al posto giusto. Il ciuffo. La voce nera su un corpo bianco. Il primo simbolo dei giovani intesi come soggetti sociali. Elvis fu un cuneo piazzato nella falsa moralità del perbenismo americano: ogni adulto sapeva benissimo cosa facessero i teenager sui sedili posteriori delle macchine parcheggiate, solo che lui lo diceva. Elvis fu il primo contratto discografico a sei zeri e fu anche la prima marcia indietro di Ed Sullivan che, dopo aver giurato di non poterlo nemmeno vedere, fu costretto a furor di popolo a presentarlo nel suo programma televisivo. Negli anni dell’ottimismo obbligatorio e delle gonne sotto il ginocchio, gli stessi anni in cui Sinatra bollava il rock’n’roll come «la musica di tutti i delinquenti sulla faccia della terra», Elvis sembrò molto probabilmente la rivoluzione in persona. Negli studi della Sun Records il giovanotto era dinamite pronta ad esplodere. Con l’innovativo apporto ritmico di Scotty Moore (chitarra) e Billy Black (contrabbasso) e la supervisione di Sam Phillips, talent-scout e discografico, venne giù il mondo. Lo stesso Phillips, che sperava di trovare qualcosa di nuovo, rimase scioccato dalla diversità di Elvis, tanto grande e speciale da sfuggirli nel giro di pochi mesi. Prima del passaggio alla Rca, con cui produrrà i grandi successi mondiali, l’Elvis appena ventenne delle session Sun fu assolutamente puro. E insuperato.

Bill Haley and His Comets, The Millennium Collection (Rca)
Ancor più di Presley, William John Clifton Haley jr., nato nei pressi di Detroit nel 1925, è stato il primo promotore della diffusione del rock’n’roll col brano Rock Around the Clock, incluso nella primavera del ’55 nella colonna sonora del film Il seme della violenza. Nato artisticamente come cantante country, risulterà subito poco adatto al ruolo di alfiere della nuova gioventù ribelle per anagrafe, carattere e totale mancanza di phisique du role. Haley segnò comunque i Fifties con altre hit leggere e frizzanti nei suoni ed efficaci nelle trame canore, tutte riportate in questa raccolta, che gli assicurano un posto importante nella storia del rock.

Chuck Berry, The Chess Box (Chess)
Il musicista che ha codificato il rock’n’roll attraverso un determinato numero di battute, un preciso modo di suonare i riff e una certa quadratura metrica è stato Chuck Berry. Saranno solo canzonette, ma Maybellene, Thirty Days e Roll Over Beethoven hanno stabilito le coordinate espressive di un suono abbozzato pochi mesi prima. Autore e performer eccezionale, Berry univa l’ironia del «passo dell’oca» a un modo consapevolmente serio di trascrivere il blues e l’hillbilly ad uso delle nuove sonorità. La sua decisa, riconosciuta e riconoscibile statura compositiva gli permise di girare la boa del decennio successivo e sconfinare nei Sixties, in questo unico tra i suoi colleghi degli albori, Elvis a parte.

Jerry Lee Lewis, The Jerry Lee Lewis Anthology (Rhino)
Strafottente ed egocentrico come pochi, cresciuto nel profondo sud della Louisiana, Jerry Lee Lewis approda alla Sun Records in una Memphis già in fiamme e che lui avrebbe reso ulteriormente torrida agitandosi sul pianoforte come un ossesso. La vicenda artistica del «Killer» (questo il suo soprannome) non sarebbe la stessa se non ci fosse stata anche la sua vita a farne un simbolo della gioventù bruciata. A ventun anni aveva già due matrimoni alle spalle. Ma è il terzo ad aprirgli le porte del girone degli impresentabili: il «Killer» si unì con la sua cuginetta di tredici anni. Quella sorta di incesto di secondo grado al limite della pedofilia ne fece un eroe negativo, di quelli necessari per attizzare ogni rivoluzione di costume. Brani al fulmicotone come Great Balls of Fire e Whole Lotta Shakin’ Going On fecero il resto e fortificarono il mito.

Eddie Cochran, Singin’ to My Baby (Liberty)
I capelli brillantinati a banana, i jeans corti da cui spuntavano i calzini bianchi e le creeper scamosciate sono stati i tratti distintivi del look di Eddie Cochran, il tipo più indocile e stiloso della prima leva di rock’n’roller bianchi. Cochran però non fu solo immagine ma anche parecchia sostanza: autore dei brani che cantava (caso raro agli albori del rock) e fervido sperimentatore di nuove tecniche di registrazione. Celebri restano pezzi come Summertime Blues e C’mon Everybody (rifatta – tanto per citarne due – da Sex Pistols, con Sid Vicious alla voce, e Led Zeppelin), ma anche l’urlo scomposto di Somethin’ Else e lo shuffle minaccioso di Nervous Breakdown. Come per Buddy Holly, c’è da chiedersi cosa avrebbe combinato se non fosse andato a morire in Inghilterra, in un incidente automobilistico il 17 aprile 1960.

Buddy Holly, That’ll Be the Day (Decca)
Privo del fascino di Elvis, della sfrontatezza di Jerry Lee Lewis, della potenza di Berry e del carisma da delinquente di Cochran, Buddy Holly (pseudonimo di Charles Hardin Holley) aveva però talento, intuito e creatività, attributi che lo hanno reso uno dei più riconosciuti autori della storia del rock. Holly, morto in un incidente aereo nel 1959 all’età di 33 anni, reinventò il country con una sensibilità rhythm’n’blues, sperimentò nuove tecniche d’incisione, elaborò un nuovo assetto di gruppo e inedite progressioni armoniche condotte con un’agilità di scrittura che avrebbe ispirato intere generazioni di musicisti. Basti pensare all’influenza che ha avuto sui Beatles per comprendere la portata storica del suo contributo al rock’n’roll. Nel 1986 il suo nome è stato tra i primi dieci artisti a essere annoverati nella Rock and Roll Hall of Fame.

Little Richard, Here’s Little Richard (Speciality)
Se Buddy Holly era assolutamente accettabile dall’americano medio, Richard Wayne Penniman, in arte Little Richard, rappresentava un pericoloso oltraggio, incarnando l’anima più ribelle e indocile del rock’n’roll. Il suo stile sopra le righe e i suoi testi deliberatamente nonsense scardinavano tutte le regole che la musica aveva sino ad allora adottato. E i live show, grandiosi e megalomani, non temevano il confronto con nessuno, se non con quelli di un altro scapestrato come Jerry Lee Lewis. Con Chuck Berry, Richard è stato il portabandiera del rock’n’roll nero. Decisamente poco incline alle buone maniere, in scena suonava il pianoforte con i piedi, si presentava truccato in modo eccessivo, alternava canzoni a lunghi monologhi all’insegna di una presunzione estrema. Era insomma il tipico «corruttore d’anime» inviso ai benpensanti. L’elenco dei suoi successi annovera perle come Tutti Frutti, Long Tall Sally, Lucille e Good Golly Miss Molly, pezzi epocali in cui convivevano un tormentato senso religioso (il nostro si proporrà negli anni anche come predicatore) e l’ardore selvaggio del boogie. Il tutto racchiuso nella frase più dirompente della storia del rock («A wop bop a loom a bop a lop bam boom»), stratosferico incipit urlato da Little Richard all’inizio di Tutti Frutti nel 1955.

Bo Diddley, The Chess Box (Chess)
L’anello di congiunzione tra blues e rock di certo è stato Bo Diddley, pseudonimo di Ellas Otha Bates McDaniel. Dopo un passato da pugile, Bo diventa musicista professionista nel 1954 creando il suo famoso jungle sound e influenzando tutte le generazioni del rock americano e inglese: Doors, Quicksilver (entrambi i gruppi riprenderanno la sua Who Do You Love?), Yardbirds, Animals, Rolling Stones (agli inizi completamente Diddley-dipendenti), Who, Clash, Bob Seger, Dr. Feelgood. Un innovatore, dallo stile irruente, con riff sincopati e chitarre con suoni molto moderni, che stranamente otterrà pochissimi successi: Bo Diddley nel ’55, You Pretty Thing nel ’58 e Say Man nel ’59 (19esimo posto in classifica, suo miglior risultato), fino ai primi anni Sessanta con Road Runner e You Can’t Judge a Book by the Cover.

Johnny Cash, The Very Best of the Sun Years (Columbia)
Nel settembre del 1954 Johnny Cash, smanioso di intraprendere la carriera di musicista, incontra per la prima volta Elvis Presley dopo un concerto, ma soprattutto il suo chitarrista Scotty Moore, che gli consiglia di chiamare il boss della Sun Records, Sam Phillips. Ben prima di diventare universalmente noto che «The Man in Black», Cash si accasa per tre anni, dal ’55 al ’58, in quel di Memphis alla corte di Phillips. Non molto tempo in verità, però sufficiente per dare vita a una brillante sequenza di canzoni, country nell’approccio, ma squisitamente rock nel respiro. Brani resi assai caratteristici da una voce baritonale che allora aveva pochi eguali. Il Johnny Cash degli esordi naviga nelle acque di confine tra country e rock’n’roll come ben documentano le trenta splendide tracce racchiuse nell’antologia del periodo Sun Records (tra cui autentici inni come I Walk the Line, Folsom Prison Blues, Next in Line e Home of the Blues).