L’arte di arrangiarsi in studio di registrazione, e qualche altra volta in situazioni meno confortevoli, compare di necessità quando inizia la registrazione stessa. O, per meglio dire con un termine che ha avuto poco fortuna, ma che contiene molta più verità semantica del primo, la fonofissazione, il «fissare in qualche maniera nella materia un suono». Perché la registrazione, nella sua apparente pretesa di oggettività nel restituire il suono è, per dirla con Evan Eisenberg de L’angelo con il fonografo, «il fotomontaggio di un minotauro». L’arte di arrangiarsi, si diceva: per quanto reso possibile dai mezzi tecnici dell’epoca, o per un’idea balenata all’improvviso, e non realizzabile altrimenti se non con un’invenzione. I limiti tecnici aizzano l’ingegnosità, l’impossibilità di realizzare quanto si ha in mente suggerisce le famose «strategie oblique», come Brian Eno ebbe a definire il tutto (anche se erano altri contesti). Sono invenzioni di necessità, perché si tratta di aggirare un problema e risolverlo senza che nulla o ben poco trapeli all’esterno, se non nell’aneddotica di chi riuscirà a ricostruire il tutto. Ammesso che tale curiosità ex post poi esista: la stragrande maggioranza delle persone non sembra mostrare soverchio interesse per «come» si imprigiona la musica in un supporto, ed è un peccato, e una perdita di informazioni che molto ci raccontano su un’epoca, un periodo storico, una situazione. Si va direttamente al risultato.

L’INVENZIONE
Posizionando qualche paletto storico sull’arte di arrangiarsi, si tratterebbe di andare agli albori della fonofissazione, dunque quando il tutto avveniva per via meccanica, cercando di catturare, letteralmente, le vibrazioni impresse nell’aria dalla voce umana o dagli strumenti, per avere i primi sostanziosi documenti. La fonofissazione, dopo alcune intuizioni pionieristiche di un ventennio prima, viene inventata nel 1877 dal nordamericano Thomas Edison e contemporaneamente dal francese Charles Cros. Quali suoni potevano essere «fissati» su di un cilindro, sulla gommalacca di un primordiale 78 giri, entrambi in origine azionati a manovella con la pura energia animale di un braccio, e tutta l’imprecisione che ne derivava? Non tutti. Perché lo stilo che riceveva le vibrazioni di una membrana messa in movimento dall’aria poteva facilmente «saltare» su suoni troppo gravi o troppo acuti. Nelle prime fonofissazioni non troverete contrabbassi, sostituiti dal pacioso andamento «in due» del basso tuba, che riusciva a fonofissare qualche suono grave a far da fondamento, non troverete la batteria, per quanto ancora primordialmente rudimentale: i batteristi nelle prime sale d’incisione usavano i «wooden blocks», i blocchetti di legno evidente memoria africana prima, afroamericana poi del ritmo, rimasti poi, fino ai giorni nostri, attributo coloristico in più della batteria. Queste, di conseguenza, le prime «necessità di arrangiarsi», in studio. Le voci (soprattutto quelle impostate) potevano restar bene impresse: ecco perché Caruso, Adelina Patti e le ondate di bluesinger «jazzate» degli anni Venti che venivano dal vaudeville teatrale riuscivano ad andare d’accordo con le enormi trombe di convogliamento dei suoni prodotti fin alla puntina che incideva. Ma c’è anche un’altra ragione: la voce umana, contenendo accenti, articolazioni, parole riconoscibili dalla media degli ascoltatori funzionava meglio anche in caso di cattiva resa della fonofissazione. I pianoforti dei cilindri e 78 giri d’epoca, invece, suonavano (e suonano tutt’ora, se non si è restaurato il tutto) come pianole meccaniche anonime prive di armonici. Attenzione però: quando in studio si trovarono a «fonofissare» la squassante potenza d’emissione della cornetta di Louis Armstrong, i tecnici presenti dovettero inventarsi e arrangiarsi con la più ovvia e banale delle soluzioni, ex post, come per la batteria e il contrabbasso: posizionando il povero Satchmo sul fondo della sala, ben distante dagli altri. Così lo stilo non saltava. Fosse riuscito a incidere qualcosa il mitico Buddy Bolden, primo cornettista del jazz avvolto nelle nebbie mitografiche, l’uomo che si sentiva a isolati di distanza, quando suonava per strada, chissà dove lo avrebbero messo, in sala di registrazione.

ARRIVANO I MICROFONI
L’avvento della fonofissazione elettrica con i microfoni cambiò ovviamente pressoché tutte le carte in tavola. Se prima ci si doveva sgolare per lasciare un segno nella cera o nella gommalacca, adesso il problema era al contrario. Educare i cantanti alla nuova arte di «arrangiarsi con il microfono», dunque sapere avvicinarsi o allontanarsi dallo stesso a seconda delle proprie intenzioni di potenza, gesti che sono diventati quasi stereotipi oggi, e non ci stupiscono più. Un genio nell’arte di arrangiarsi in studio, dove nascevano le più caleidoscopiche e vorticose soluzioni sonore per brani che combinano assieme l’effetto da cartone animato, la velocità delle slapstick comedies, la panoplia sonora del jazz, fu Spike Jones, al secolo Lindley Armstrong, musicista performer vissuto tra il 1911 e il 1955. Nel 1940 mise in piedi i suoi City Slickers, eccellenti musicisti, scafati improvvisatori, perfetti lettori di partiture, ma anche gente clamorosamente abile nell’arte di arrangiarsi per ottenere in studio gli effetti sonori che rendevano folle, buffo e surriscaldato il mondo di Spike Jones. Che aveva peraltro cominciato a suonare la batteria imparando da un cuoco di ferrovia: con pentole, coperchi, cucchiai e forchette. In studio campanacci, pistole giocattolo e clacson da auto, incudini (come avrebbe poi fatto Tom Waits, tre decenni dopo!) erano poco più che la norma, ma che dire del latrinofono, una seduta da wc con pelle tesa? E dello xilofono – intonatissimo, peraltro – in cui ogni suono era prodotto da un oggetto diverso: piatti in ceramica, bidoni di benzina, freni d’auto, trombette per bicicletta? Altissimo artigianato acustico, insomma, e arte dell’arrangiarsi al massimo livello.
Veniamo al Maestro dei maestri nell’arte dei arrangiarsi, in Italia. Il musicista che seppe unire il massimo di senso pratico per riuscire ad ottenere un effetto sorprendente, o espressivo, o tutte e due le cose assieme, se preferite, e il massimo della teoria ben assimilata, nello scrivere e dirigere compagini orchestrali di dimensioni sinfoniche. Ennio Morricone, naturalmente. Succede che nel 1960 il Maestro romano, poco più che trentenne, deve trovare il modo di sbarcare il lunario con lavori e lavoretti non necessariamente di profilo artistico storico. Lo assumono alla Rca (quasi in bancarotta: dunque fondi per le incisioni minimi) assieme a Luis Bacalov, ogni giorno è una sfida a inventarsi qualche soluzione funzionale, pratica e inaspettata, nel mondo in effervescenza della nuova musica leggera. Perché Morricone, racconta Gianni Morandi, con i suoi effetti speciali poveri, oltre che con la maestria strumentale, «colorava le canzoni».
Quando si trova a mettere le mani sul brano «forte» del primo cantautore, Gianni Meccia, Il barattolo, 1960, Morricone risolve da par suo: sulla sinuosa linea melodica dove Meccia canta «Rotola strada facendo/rimbalza qua e là come il mio amore» fa risuonare, a volte a tempo, più spesso in maniera fascinosamente casuale un vero barattolo vuoto. Effetto sublime e spiazzante. Espediente ovviamente preso in prestito dalla serissima musique concrète di Pierre Schaeffer, che Morricone aveva studiato a fondo. E un barattolo con i fagioli dentro a innescare piccoli smottamenti ritmici sarà anche frutto dell’arte di arrangiarsi di Mauro Pagani, nel costruire le musiche del sublime Crêuza de ma per Fabrizio De André. Invece Morricone, un paio d’anni dopo Il barattolo, quando si tratta di inventare qualcosa di sorprendente per l’inno vacanziero da boom economico Pinne, fucile e occhiali di Edoardo Vianello, si arrangia a modo suo: con una bacinella d’acqua, per simulare l’effetto «splash» dei tuffi, e il borbottio dell’acqua (vera) assieme alle percussioni latine. Geniale.

PORTE CIGOLANTI
A proposito di musique concrète, e di fonti sonore ricavate da quanto sta attorno. Nel 1967, ai Sun Studios di New York, Herman Poole Blount, dal mondo conosciuto come Sun Ra, incide i 10 minuti e 29 secondi di Door Squeak: nel senso letterale del termine, un cigolio di porta «suonato» da Sun Ra stesso come se fossero linee melodiche di minimoog, o sortite di oboe. Con contorno di percussioni assortite e piccoli strumenti a corda. Il tutto ora recuperato su Strange Strings, per la benemerita Unheard Music Series della Atavistic.
A volte l’arrangiarsi è stata una necessità improvvisa e ineludibile, per non perdere il treno dell’ispirazione. Successe ai Deep Purple nel loro momento di massimo fulgore e potenza. Quando nacque Machine Head, il disco che contiene Smoke on the Water, forse il riff più famoso della storia del rock. Era il 1972, avevano alle spalle due dischi diversi e centrati che li avevano allontanati dal mondo del beat e del protoprogressive come In Rock, uno degli atti di nascita dell’hard rock più galoppante e granitico di sempre, e Fireball, rock duro sì, ma pieno di aperture «progressive». Il gruppo di Ian Gillan e Ritchie Blackmore era a Montreux, Svizzera, con l’idea di raccogliere idee lontano da Albione, e registrare quanto sarebbe venuto fuori dalle session al Casino di Montreux attrezzato a sala di registrazione. Nella sera in cui arrivano nella terra della puntualità, i Deep Purple assistono abbastanza allibiti all’incendio del Casino. Il destino s’è messo di traverso, è successo che quella sera lì sta tenendo un concerto, rocambolesco come sempre, niente poco di meno che Frank Zappa con le sue Mothers. Un fan, troppo galvanizzato dalla già attiva pirotecnia sonora mostrata dalla band ha pensato bene di sparare un razzo da segnalazione nel Casino. Prende fuoco tutto. In pratica l’episodio descritto nel testo di Smoke on the Water, con tanto di «fumo sull’acqua (è il lago di Ginevra) e un fuoco nel cielo».
Come rimediare al tutto, senza perderci una barca di soldi? In due mosse perfette per l’arte di arrangiarsi. I soldi non mancano, e allora si affitta lo studio mobile dei Rolling Stones che sta stipato e in perfetto ordine su un camion. Le registrazioni si faranno al Grand Hotel di Montreux, non esattamente il luogo ideale per domare il fumigante rock duro dei Deep Purple tutto rimbombi e picchi di potenza. E allora band e squadra di tecnici al lavoro, trascinano in corridoio tutti i materassi delle camere, alla fine il corridoio stesso sembra il tunnel di un manicomio vecchio stile, ma il suono c’è, i materassi assorbono e attutiscono il giusto, e si registra. Quanto potete ascoltare in uno dei più possenti dischi della storia del rock. Peraltro Smoke on the Water esclusa, incisa altrove e tra le proteste plateali della tranquilla cittadinanza svizzera.

MALEDETTA MOSCA
Veniamo al nome più in vista, per celebrare l’arte di arrangiarsi. I Pink Floyd, quelli storici, con Roger Waters e prima ancora Syd Barrett, il diamante pazzo (che si arrangiava a modo suo a creare lancinanti glissando sulla chitarra elettrica utilizzando non un bottleneck, ma un accendino metallico Zippo). Grantchester Meadows, su Ummagumma, 1969, è zeppo di effetti sonori naturalistici tratti dagli archivi sonori di Abbey Road, e fin qui niente di particolare: uccelli che si alzano in volo, martin pescatori che si immergono, ronzii di insetti, latrare di volpi. Ma alla fine, a fronte del fastidioso svolazzare di una mosca al chiuso, si sente una porta che si apre e poi sentono i passi pesanti di una persona: che non arrivano dall’archivio di Abbey Road, perché qui scattò la leggendaria arte di arrangiarsi floydiana. Storm Thorgerson, l’uomo che costruiva le clamorose copertine del gruppo fu in sostanza costretto da Roger Waters a indossare pesanti zoccoli di legno e a camminare per lo studio, mentre i tecnici del suono registravano il tutto. Alla fine, il rumore di qualcuno che arrotola un giornale, scocca un colpo secco e uccide la mosca che, evidentemente, aveva attizzato il fastidio del camminatore.
Non è il solo esercizio di arte dell’arrangiarsi sul disco. Un colpo da maestro Waters lo piazza in Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict. Waters utilizza solo la sua voce e rumori che provoca percuotendosi diverse parti del corpo, per evocare l’antico guerriero della tribù dei Picts scozzesi (i «pitturati» come li chiamavano i soldati romani invasori) e la pletora di animaletti fantascientifici che si ascoltano rumoreggiare per tutto il brano. Il bassista, probabilmente ispirato da esperienze coeve ascoltate su disco di John Cage, Frank Zappa, e MEV (Musica Elettronica Viva), manipola sui cursori la velocità dei nastri, ottenendo effetti spiazzanti e nascondendo anche piccoli segreti qui e là. Ad esempio dopo il quarto minuto se si ascolta la registrazione rallentandone la velocità si troverà la seguente ironica frase di Waters: «Un bel pezzo d’avanguardia, non trovate?».
Frutto dell’arte di arrangiarsi anche Alan’s Psychedelic Breakfast: Alan era Alan Stiles, roadie della band, e la «colazione» sonora commentata dalla voce dello stesso Stiles che si ascolta su Atom Heart Mother fu davvero registrata in diretta, nell’estate del 1970: nella casa di Islington del batterista Nick Mason. Con fornelli, bacon, uova, fiammiferi accesi in diretta, un rubinetto che sgocciola. Waters, bisogna dire, aveva già lavorato sulla «biomusica», suoni (anche imbarazzanti!) prodotti dal corpo umano e manipolati in vari modi: su Music from the Body, colonna sonora per il documentario The Body di Ron Battersby, realizzata assieme a Ron Geesin.
Su Meddle, invece, si trova un curioso coro da stadio che intona You’ll Never Walk Alone in Fearless, a rimarcare la distanza tra il superbo isolazionismo del protagonista (evidente ombra di Waters) e la necessità di avere rapporti con le altre persone: è un vero coro, sono i tifosi della curva Kop del Liverpool, registrati da Waters allo stadio prima di una partita contro il West Ham United. The Dark Side of the Moon è un vero prontuario dell’arte di arrangiarsi: gli esempi non si contano. Il muro di sveglie e pendole di Time fu registrato davvero: in un negozio di St. Johns Wood vicino agli Abbey Studios. Da Alan Parsons. Che levò però il suono di un orologio a cucù, che sovrastava il tutto e introduceva una nota un po’ troppo umoristica per la funzionalità del pezzo. Money, leggendario brano funky è il montaggio del suono di un registratore di cassa aperto e chiuso, del rumore di monetine lanciate in una impastatrice da Waters e di carta strappata. A proposito di arte di arrangiarsi, ma al quadrato, per Alan Parsons: come riuscire a calcare la porzione di secondo esatta di grande nastro magnetico dove inserire o tagliare e ricucire con lo scotch? Semplice, tendendo il nastro stesso come festoni sulle aste dei microfoni, in giro per lo studio. C’è anche un’arte di arrangiarsi cercata, perseguita e abortita, nel carnet dei Pink Floyd. Strano ma vero. Succede nel 1973, con un tentativo grandioso e sbagliato di arrangiarsi che va sotto il nome di Household Objects, oggetti casalinghi. Travolti dal successo planetario di The Dark Side of the Moon, per qualche mese i Pink Floyd tentarono, invano, di realizzare un disco intero senza strumenti musicali, arrangiandosi con gli armonici sprigionati da bicchieri più o meno pieni passando con dita bagnate sul bordo, utilizzando elastici, pettini, bottiglie, e così via. Qualcosa è rimasto su un paio di brani di Wish You Were Here, due pezzi compiuti brevi ma davvero interessanti, The Hard Way e Wine Glasses sono finiti nelle edizioni speciali di The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here. Non sempre ci si arrangia a dovere.