Esistono album come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, Nevermind dei Nirvana, Highway 61 Revisited di Bob Dylan o The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, che hanno fatto la storia della musica. Dischi magnifici, canzoni iconiche, ma purtroppo non di sola bellezza e successo è la vita di un cantante e di una band. Questa è la storia delle cadute, a volte magnifiche che, prima o poi, anche i più grandi artisti devono vivere. Voglia di stare al passo coi tempi, crisi creativa, screzi tra i membri del gruppo hanno portato alla creazione di album da dimenticare che gli stessi autori hanno, a volte, cercato persino di cancellare. Come spesso accade però questa è la storia anche di piccole perle non capite e che avrebbero meritato di più. Questa è la storia degli incompresi, degli ultimi, i figli dei «quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi».

IL PEGGIORE
Fly on the Wall del 1985 degli AC/DC è considerato uno dei peggiori, se non il peggiore, della discografia della band fondata dai fratelli Young nel 1973. Non che si tratti di un lavoro disastroso, ma si sente il peso degli anni Ottanta, l’incapacità del gruppo di rinnovarsi, di portare qualcosa di nuovo, di uscire dal lutto della morte, a soli 33 anni, di Bon Scott, frontman del gruppo, ucciso da una serata di eccessi alcolici. Fino a quel tragico febbraio 1980 l’armonia tra i membri del gruppo era incredibile: Angus Young creava un brillante riff di chitarra, Malcolm Mitchell Young si lanciava nei suoi potenti accordi e poi era il momento della voce grezza e prepotente di Ronald Belford «Bon» Scott. In poche parole, la formula perfetta capace di creare album incredibili come T.N.T. e Highway to Hell. La difficoltà per la band in quel periodo è di aver perso non solo un amico e un membro essenziale, ma anche uno strepitoso paroliere di testi selvaggi.
L’annuncio dello scioglimento del gruppo, per molti, sembrava solo questione di tempo. Questo però non successe; la musica fu invece terapeutica al periodo di disperazione e di confusione che i musicisti stavano vivendo. Le sessioni di prova per i nuovi progetti fecero prendere ai fratelli Young una decisione non così scontata: non poteva finire tutto così. Bon stesso non avrebbe voluto lo scioglimento del gruppo al quale s’era tanto dedicato.
Back in Black fu l’album che li consegnò alla storia della musica. L’opera si apre con il rintocco di una campana a morto (in memoria di Bon Scott), che introduce Hells Bells, e i 42 minuti seguenti contengono fra le migliori canzoni che gli AC/DC abbiano mai scritto. Anche grazie allo straordinario lavoro del nuovo frontman, Brian Johnson. La sua voce era più acuta di quella di Bon Scott, ma aveva indubbiamente delle somiglianze e sembrò subito adatta anche a prestarsi a molti brani scritti da quest’ultimo. Fu però proprio questo grande successo ad aprire la strada verso un inferno di album meno riusciti che caratterizzeranno tutto l’andare degli anni Ottanta.
Fly on the Wall è per molti il peggior disco della band, il più stanco, il meno brioso in fatto di testi e virtuosismi musicali. Sia dato atto però che è difficile che una band come gli AC/DC produca un album pessimo, siamo a livelli discreti, migliori forse del precedente Flick of the Switch, per dirla tutta, ma si percepisce, questo è indubbio, una certa stanchezza, un farsi cullare dal passato glorioso senza nulla di nuovo da dire. Forse per questo, ancor di più di un prodotto mediocre, è condannabile. L’aspetto più criticato fu comunque il missaggio: il basso risultò troppo in secondo piano e molti non apprezzarono il leggero ma costante effetto di eco sulle parti vocali.
Il batterista Simon Wright, che ha fatto parte degli AC/DC dal 1983 al 1989, in una recente intervista con Talking Metal ha raccontato della sua esperienza per questo disco: «Penso che fosse un buon album. È stato fantastico. Eravamo in una parte del casinò che era anche uno studio di registrazione, era un enorme edificio circolare. E i tamburi avevano un suono massiccio lì dentro. È stato un grande momento. Un sacco di persone mi dicono che Fly on the Wall è trascurato e roba del genere. Gli AC/DC avevano fatto Back in Black e For Those about to Rock, che erano album massicci e sinceramente non penso che si potesse tenere il passo».

FORMAZIONE PERFETTA
I Guns N’ Roses sono stati una delle band più iconiche degli anni Ottanta e Novanta. Quando firmarono per la Geffen Records nel 1986, la formazione comprendeva il cantante Axl Rose, il chitarrista solista Slash, il chitarrista ritmico Izzy Stradlin, il bassista Duff McKagan e il batterista Steven Adler. Questa per molti fan è la line-up perfetta in una storia interna del gruppo fatta di screzi, di incomprensioni, di cambi di musicisti in una discografia che si è fermata inesorabilmente con il non così eccellente The Spaghetti Incident?, album di cover del 1993. Da allora tanti sono stati gli annunci di un nuovo disco mentre gli anni passavano e per molti i Velvet Revolver, nati all’inizio del nuovo millennio, composti, tra gli altri, da Slash, McKagan e Matt Sorum erano i veri Guns N’ Roses o almeno la fenice migliore nata da una band ferma agli anni Novanta. Durante un’intervista del 1999, Rose annunciò il titolo del nuovo album, Chinese Democracy, definendo l’opera «diversa da ogni cosa sentita prima dalla band», più vicino all’industrial ma «senza esserlo completamente (…) Ci saranno tutti i tipi di stili, molte influenze come il blues, mescolati nelle canzoni». Da lì è un susseguirsi di annunci, di dichiarazioni come «l’album uscirà in due parti» o «ripartiremo da zero» quando, nel gennaio 2000, il manager dei Guns N’ Roses, Doug Goldstein, disse che il disco era «finito al 99%». Invece Chinese Democracy uscirà vari anni più tardi, nel 2008, con il solo Axl Rose rimasto della vecchia formazione ad urlare la sua esistenza, alla faccia di chi non ci credeva più. Anni di attesa, molti dei quali passati ad assistere alla dipartita inesorabile dei membri storici; il resto del tempo a comporre, rifinire e imbottire all’inverosimile una leggenda che sembrava, al pari del Paganini di Klaus Kinski, un’opera troppo ambiziosa per vedere mai la luce. Mastodontico anche nella dilapidazione di budget, distribuito tra l’infinità di studi di registrazione utilizzati, gli acconti milionari della Geffen ad Axl per consegnarlo ultimato alla fine del ’99 e la grande attesa da parte degli ancora agguerriti fan. Recitava un sonetto sull’autunno di Angiolo Silvio Novaro: alla fine quello che resta è «un pugnel di morte foglie». Quindici anni da The Spaghetti Incident? per avere tra le mani una delusione, una specie di Use Your Illusion III, con molta meno verve e più spirito di sperimentazione, capace di spaziare, come annunciato, dall’industrial al rock più classico. L’unica canzone capace di stupire e di far risentire il sound tipico della band è il brano che dà il titolo all’album, ma anche la voce di Axl non è più la stessa di qualche decennio prima, distrutta dagli eccessi che cerca ancora gli striduli famosi della sua giovinezza senza riuscirci. Il resto prova ad essere per assurdo un album che omaggia i Queen ma con l’idea di essere Guns N’ Roses quando sarebbe stato meglio chiudere tutto in quel 1993.

NOMI ILLUSTRI
La rassegna estera dei capitomboli delle grandi star della musica conta nomi illustri come Gene Simmons con Asshole del 2004. Il bassista dei Kiss non era la prima volta che tentava la carriera da solista, ma il primo parto del 1978, intitolato proprio Gene Simmons, era nettamente migliore. Il titolo provocatorio (asshole significa stronzo) non bastò a salvare le canzoni, un mix di post grunge, alternative industriale, elettronica e ballate pop sperimentali senza equilibrio né originalità. La migliore è Sweet Dirty Love che ricorda come atmosfera Tie Your Mother Down dei Queen con alcuni passaggi di chitarra slide blues. È però poco per salvare un disco che non sa mai che direzione prendere e butta al vento i contributi preziosi di Bob Dylan e della famiglia Zappa.
Impossibile non citare Forbidden del 1995, ultimo album dei Black Sabbath. Tony Martin è un bravo cantante, ma la forza e la grinta che Ronnie James Dio aveva messo in Dehumanizer, ad esempio, non gli sono proprie, e quindi la sua voce risulta sì più melodica, ma al contempo spenta e amorfa. Il brano peggiore è The Illusion of Power, un sound alquanto confusionario, con il rapper Ice-T che non riesce ad entrare in sintonia con il frontman della band che fu di Ozzy Osbourne. In generale le canzoni furono scritte in fretta e furia e il risultato finale è quello di un album inconsistente e privo di personalità.
Michael Bolton con Soul Provider del 1989 tenta un omaggio al soul e al rhythm and blues, ma viene definito dal magazine Rolling Stone «un insulto alla musica nera». Noi non siamo così cattivi, ma è certo che le versioni di classici come (Sittin’ on) The Dock of the Bay di Otis Redding e Georgia on My Mind di Ray Charles sono tra le più disastrose mai ascoltate. Nonostante ciò l’album fu un successo di vendite.

SOGNI INFRANTI
I Litfiba sono ricordati soprattutto per l’apporto del duo Federico «Ghigo» Renzulli alle chitarre e Piero Pelù alla voce. In tanti si ricordano i litigi che portarono nel 1999 il cantante a lasciare la band con le parole: «Sarà come una festa di laurea per me, perché fino ad ora, diciamo, considero questi begli anni con Ghigo una gran bella palestra. Da oggi si incomincia a lavorare sul serio». Se Pelù inizierà una felice carriera come solista con alcuni album, come Né buoni né cattivi, dalle influenze marcatamente pop, i Litfiba con il solo Renzulli al comando, continueranno il loro incerto viaggio con l’arrivo di due nuovi frontman, prima il talentuoso Gianluigi Cavallo, detto Cabo, poi Filippo Margheri, giovane cantante proveniente da un gruppo underground fiorentino, i Miir. Se la carriera di quest’ultimo non decollerà mai davvero con la band (all’attivo un unico ep, Five on Line, autoprodotto e diffuso solo in formato digitale), il contributo del primo sarà più preponderante. Il secondo parto tra Cabo e la band di Ghigo è fenomenale: Insidia (2001) è un album fresco che riesce a trovare strade nuove sganciandosi dall’eredità Pelù. Basta ascoltare la canzone più riuscita, La stanza dell’oro, dotata di un’atmosfera straordinariamente cupa, oppressiva e opprimente in certi passaggi per capirne la grandezza. Purtroppo il precedente lavoro del 2000, Elettromacumba, è invece una delle cose peggiori mai partorite nella storia della band, con un Cabo che, fin dal videoclip della canzone che dà il titolo all’opera, sembra una parodia, a cominciare dalla voce, che imita grottescamente Piero Pelù. In più il testo del brano, un rock elettronico, sciorina banalità sul mondo digitale tra computer e connessioni, un argomento affrontato con ben altro piglio dai Timoria con il magnifico 2020 SpeedBall e la struggente Speed Ball. Insidia e Elettromacumba, come il successivo Essere o sembrare del 2005, non sono mai stati inseriti nel sito ufficiale dei Litfiba, banditi dalle piattaforme come Spotify e cancellati dalla memoria collettiva dei fan come si faceva con i faraoni nemici nelle piramidi egizie.
Concludiamo questo viaggio con Zucchero filato nero, parto solista di uno dei fondatori degli 883, Mauro Repetto. Dopo due grandissimi successi, Hanno ucciso l’uomo ragno e Nord Sud Ovest Est, nel 1995 quest’ultimo decise di abbandonare il duo e intraprendere una carriera solista con un album, prodotto da Claudio Cecchetto, che avrebbe dovuto essere un riscatto artistico davanti gli occhi di un pubblico che non l’aveva mai considerato altro che «il biondino che si dimena come un forsennato sul palco». Eppure i primi due album della band sono scritti proprio da Repetto che mette le iperboli fumettistiche sulle canzoni, le onomatopee da Batman pop con Adam West, gli slam delle porte aperte, i bang dei cannoni, ma soprattutto quell’incredibile poesia disperata da provincia senza via d’uscita scandita dagli amici chiassosi, dalle ragazze api regine e dai soldi che non bastano mai. Dopo di lui gli 883 tenderanno al pop sempre più sdolcinato di Max Pezzali dimenticando anche quelle sonorità vagamente rock dei primi brani. Zucchero filato nero è anche il disperato sogno di un uomo che si innamora di una fotografia, quella di una modella di nome Brandi Quinones notata su una rivista, e che sogna di girare un film a Hollywood con i soldi guadagnati con gli 883. Il viaggio di Repetto negli States, racconta la leggenda, finisce con il furto del budget da parte di un poco onesto agente cinematografico. Mauro, il biondo che balla, non ci sta e tenta l’ultimo disperato colpo di testa: punta tutto quel poco che gli rimane al casinò. Rien ne va plus, perde tutto. Allora gli viene incontro l’amico Cecchetto, che gli tende la mano e gli fa incidere il disco della sperata rinascita, Zucchero filato nero. Ma tutto quello che funzionava negli 883 qui non quaglia: lo stesso mondo di disperati e sfigati, di amici traditi e di donne cannibali diventa, lontano dalla voce di Pezzali, uno strazio stonato dal poco intonato Repetto. My Love, con la presenza di Francesca Tourè che diventerà la cantante solista dei Delta V, rappresenta, pur nella sua mediocrità, il migliore brano presente nell’album: una versione italiana del rock dei Guns N’ Roses dissociata e psicotica, capace di passare dal cantato melodico al rap in maniera schizofrenica. Il disco sarà, qualche mese dopo la sua uscita, dimenticato nei cestoni dei supermercati a poco più di 5 mila lire.
In queste storie mancano sicuramente gli scivoloni di Bob Dylan & The Grateful Dead con Dylan and The Dead, un live che non piacerà a posteriori neppure al suo stesso autore, poi i Mötley Crüe con il pasticcio di Generation Swine e la svolta pop zuccherosa dei Def Leppard con X, ma citare nella completezza i tanti momenti no di un cantante o di una band richiederebbe un saggio intero. Siamo sicuri che comunque, in qualche angolo del mondo, qualcuno ritiene Chinese Democracy dei Guns N’ Roses, per esempio, un grande esempio di musica azzardata, forse il miglior parto dai tempi di Appetite for Destruction. Provate a cercare in rete e resterete stupiti. D’altronde i gusti, per parafrasare Clint Eastwood e il suo ispettore Callaghan, sono un po’ come le palle: ognuno ha le sue. Per fortuna, aggiungiamo.