Quando Rocco Scotellaro esce dal carcere di Matera il 25 marzo 1950 «prosciolto dall’accusa, per non aver commesso il fatto», dopo averci trascorso 45 giorni, decide di dimettersi definitivamente da sindaco, amareggiato e sconfitto. Era stato rieletto, dopo un primo mandato finito anzitempo per le mutate condizioni politiche – dopo il 18 aprile – ottenendo addirittura più voti con la lista di sinistra de “«L’aratro», ma non erano finiti gli attacchi contro di lui, politici e penali, senza scrupoli, sfociati in un’accusa di concussione e in un arresto ignominioso.
Nel 1943, ventenne, dopo aver studiato a Trento ed essersi iscritto all’università a Roma, era tornato nella sua Tricarico, già parte dell’Italia liberata, per stare con la famiglia dopo la morte del padre e venendo subito cooptato nel CLN locale. Rocco si vuole dare da fare, contribuire alla rinascita. Il 4 dicembre si iscrive al Partito socialista e il 10 giugno successivo partecipa al ventennale dell’uccisione di Giacomo Matteotti.

Nel 1946, viene eletto sindaco. Sono anni difficili, il suo mandato da sindaco è però positivo. Quando arriva il 18 aprile 1948, la «pozzanghera nera» infrange le sue e molte altre illusioni. «È finita, è finita». Tornerà a vincere, ma non sarà più come prima.
Per l’Italia nella tenaglia della guerra fredda sono cominciati gli anni della repressione dei movimenti, dell’esclusione delle sinistre – l’unità nazionale della Resistenza è un ricordo – all’insegna della ricostruzione, del «miracolo economico» trainato dall’industrializzazione e della crescita, sostenuta dall’enorme migrazione interna dalle campagne alle città industriali e dal Sud al Nord. Nel Mezzogiorno, il problema della terra era riesploso già durante la guerra.

Le occupazioni delle terre si susseguono – spinte dalla fame – contro un sistema latifondiario bloccato da secoli. Contadini e braccianti si accampano sui terreni incolti, decisi a lavorarli ma le loro manifestazioni vengono represse, con morti e feriti. Anche Scotellaro vi partecipa e vive il fremito delle masse dei diseredati, dei «Subalterni», che non accettano più la loro condizione.

Il ministro dell’agricoltura del governo CLN con a capo Badoglio, Fausto Gullo, comunista calabrese, aveva fatto approvare nel 1944 una prima legge per l’esproprio dei terreni incolti che aveva dato la spinta al movimento, che Partito comunista e socialista appoggiano, pur mancando ancora di un solido seguito al sud, che si estenderà negli anni. La CGIL, risorta nel 1944 dopo il buio del ventennio, è dentro ai moti di rivolta, li organizza e li sostiene (anche se poi perde la CISL e la UIL, patendo le divisioni tra i partiti). Socialisti e comunisti, pur uniti sotto il Fronte, mostrano divisioni, anche sul movimento contadino e sulla «questione agraria». Sono divisioni antiche, che però si riacutizzano anche sul ruolo da dare a braccianti e contadini nella prospettiva della lotta politica nazionale.

Scotellaro uscirà dalla sua esperienza politica guardando altrove, non cessando di credere nell’impegno, ma patendo quello che sente come tradimento dei vertici, per dedicarsi alla «politica del mestiere» dei suoi maestri, Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria.

Lo fa a modo suo, con quei due originalissimi contributi che sono L’uva puttanella e Contadini del Sud, che usciranno postumi. «Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame», dirà, inveendo contro gli eterni notabili come contro i nuovi dirigenti di partito.

Nel Psi, la questione agraria rimarrà incagliata sul ruolo da dare alla piccola proprietà contadina. Nel Pci, la divisione sarà sulle alleanze con la classe contadina e bracciantile nel processo di emancipazione guidato dalla classe operaia. Alicata e Salinari inveiranno contra la pretesa di ridestare «l’autonomia contadina», secondo l’impostazione gobettiana di Carlo Levi, con anche Giorgio Amendola, il «liberale», che si ricrederà. Ma sarà troppo tardi. La riforma agraria di Segni sarà un palliativo che metterà il sonnifero alle rivolte: poche le terre distribuite, pochi i capitali messi a disposizione, una manovra di ridisegno sociale calata dall’alto. Anche Rossi-Doria ne criticherà l’inadeguatezza dell’impianto. Finché arriverà l’industrializzazione del Nord ad avviare l’esodo che farà sparire per sempre quella «civiltà contadina» che avrebbe potuto essere uno dei semi fecondi della rinascita del Meridione. Che mai arrivò, se non sotto i denari veicolati dalla Cassa del Mezzogiorno per alimentare il sottobosco della clientela degli assistiti. Rocco fu forse l’ultimo (e anche unico) esempio di intellettuale «collettivo» che voleva far sentire la voce di quelle masse che cercavano un riscatto, certo non l’intellettuale «rurale» distaccato, perché lui non era che «uno degli altri» quattro milioni (e 230mila lucani) che lasciarono la terra e la militanza politica, travolti dal torrente dell’emigrazione.