«È caduto Novello sulla strada all’alba, a quel punto si domina la campagna, a quell’ora si è padroni del tempo che viene» cantò Rocco Scotellaro nella sua Montescaglioso per ricordare Giuseppe Novello caduto durante le occupazioni delle terre nel dicembre del 1949.

Furono moti contadini che reclamavano terreni lasciati incolti, sui quali poterci vivere, per spezzare quel giogo di miseria e sottomissione che si era protratto per secoli. Ce n’erano state già al tempo della spedizione dei Mille, come a Bronte, in Sicilia, sedate nel sangue. Ce ne furono in tutto il Paese, dopo l’Unità, soprattutto in Meridione, dove diffusi erano i latifondi di proprietà di pochi possidenti, residenti nelle città, e braccianti e fittavoli addensati nei grandi borghi rurali da cui muovevano per il lavoro nelle campagne. In Sicilia i Fasci siciliani di fine Ottocento furono repressi nel sangue, come gli scioperi e le occupazioni della «Lega dei Contadini» in Basilicata nel 1902, in cui morì il bracciante Giuseppe Rondinone. E anche nel primo dopoguerra vi furono occupazioni della terra da parte di quei contadini cui i generali l’avevano promessa per chiamarli alla guerra. Nulla era cambiato, però, e l’immobilità dell’economia rurale meridionale si era protratta.

Così, i movimenti contadini erano ripresi nel secondo dopoguerra con altre occupazioni in Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia. I contadini chiedevano «pane e lavoro», e volevano in concessione terreni per poterli lavorare anziché essere costretti al lavoro controllato dal caporalato, in virtù del decreto del 1944 che portava la firma del comunista Fausto Gullo.

Varie rivolte si ebbero già tra il 1943 e il 1945, scatenando la reazione violenta degli «agrari», e poi nel 1949, quando si susseguono agitazioni ed occupazioni di feudi, terre incolte e demani. La reazione delle forze dell’ordine guidate da Scelba fu però sempre dura, ed eccidi di contadini e braccianti si ebbero il 29 ottobre a Melissa (Crotone), con tre morti, e poi il 29 novembre a Torremaggiore (Foggia), con due morti. Moti per lo più spontanei, ma sostenuti dalle organizzazioni sindacali.

In Basilicata, il centro del movimento è Montescaglioso, ove la Camera del Lavoro organizza l’occupazione dei terreni demaniali nella valle del Bradano. Le occupazioni per tutto il mese di dicembre 1949, in 19 comuni, vedono in prima fila soprattutto le donne. Nella notte del 13 dicembre, a Montescaglioso, i Carabinieri mitragliano un corteo di contadini che cercano di impedire che i dirigenti del movimento siano tradotti nelle carceri. Giuseppe Novello cade tra le braccia della moglie Vincenza Castria (morirà il 17 dicembre). «Vollero colpire i contadini, ma anche i comunisti che li sostenevano», racconta Filippo Novello, figlio di Giuseppe e Vincenza. «Questa terra mia è rossa, scrive Vincenza nel suo libro, ma lo è del sangue dei suoi figli», dice Francesco Candido, il figlio che Vincenza poi ebbe da Ciro Candido, anche lui un protagonista di quelle lotte.

Erano le prime proteste per la terra del Meridione nell’Italia Repubblicana che mettevano in luce il rapporto feudale che ancora vigeva tra il proprietario terriero – il barone, l’agrario – e il contadino, condizione che era stata perpetrata e favorita dal fascismo. Rocco Scotellaro ben conosceva quel dramma, dopo aver vissuto l’infanzia e la sua giovane età adulta nel suo paese, Tricarico, ed era conscio della situazione disumana in cui sopravviveva la «civiltà contadina»: le carenze alimentari e igienico-sanitarie, un caporalato spietato e intransigente, l’estrema e costante povertà. Rocco scrive poesie e racconti, studia, si unisce ai sindacati e ai contadini che protestano, si iscrive al Partito Socialista e ne apre una sezione in paese. Nel 1946, all’età di ventitré anni, viene eletto sindaco di Tricarico e sarà rieletto quattro anni dopo.

Rocco Scotellaro crede nella lotta politica per migliorare le condizioni di vita dei contadini e si dedica allo sradicamento di quelle fonti di malessere secolare, partecipando anche all’occupazione delle terre, come quella dei feudi di Policoro del barone Berlingieri nel 1949. «È fatto giorno», scriverà, «siamo entrati in giuoco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo». Nei suoi canti, riverbera l’enfasi del riscatto politico e sociale della «civiltà contadina», nei suoi versi d’incitamento i protagonisti sono i contadini stessi, pronti a rivendicare i propri diritti, in una lirica incalzante, quasi epica, a celebrare l’ingresso nella modernità della civiltà rurale meridionale.

La Riforma agraria, promulgata nel 1950 con le leggi «stralcio» di Antonio Segni, portò all’assegnazione di una quota di fondi ai contadini, in appezzamenti spesso troppo piccoli, non sempre serviti di acqua. E in meno di un decennio quei terreni vennero gradualmente abbandonati. Fallirono le cooperative, i contadini senza mezzi e un vero programma furono costretti ad emigrare.
Fallì la riforma, ché all’Italia che ripartiva, lanciata verso il boom, ben serviva quell’esercito di manodopera disponibile per l’industrializzazione del Nord.

Ma fallì anche il mito dell’industrializzazione del Sud, fondato sulla grande impresa industriale motore dello «sviluppo», quella «ideologia» a cui si sacrificò nei decenni successivi ogni criterio di equilibrio, secondo cui per le regioni arretrate sviluppo è convergere verso un modello tutto esterno, senza tener conto delle risorse endogene e dei legami storici, geografici e biologici che sussistono con il territorio. Disperdendo così alla radice quella «cultura contadina» autonoma di cui Rocco aveva colto il potenziale aggregativo e progressivo, anche oltre Carlo Levi.

Sotto la luce della poesia e dell’inchiesta sul campo, Rocco ne vide la vitalità, nella volontà di riscatto, al di là della sola valorizzazione, cristallizzata nel Cristo, espressa in quei nuclei che avrebbero potuto fare la differenza. «Noi siamo degli acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella».