Non c’è giustizia a questo mondo se in tutta l’estate Roscoe Mitchell ha un solo concerto in Europa e Wadada Leo Smith due. Il sassofonista e il trombettista sono fra le grandi figure emerse nella seconda metà degli anni sessanta nell’ambito dell’avanguardia nera chicagoana con un «post-free» che superava in avanti il free jazz storico, portandone per certi aspetti a conseguenze ancora più estreme la lezione, ma anche variando e arricchendo il gioco con nuovi elementi (improvvisazione in solitudine, polistrumentismo, rapporto improvvisazione/composizione, ricerca timbrica, ecc.).

 

 

Dopo avere abbondantemente caratterizzato la scena della nuova musica di matrice jazzistica degli anni settanta, i maggiori protagonisti della «scuola di Chicago» hanno proseguito con costanza nella loro ricerca, e, per fortuna quasi tutti ancora in attività, costituiscono una generazione di settantenni che si staglia sulla scena del jazz di oggi per l’energia creativa ancora intatta, l’originalità delle proposte, l’integrità artistica: Mitchell, Smith, Anthony Braxton, Henry Threadgill, senza contare il «guru» dell’avanguardia chicagoana, il pianista Muhal Richard Abrams. È vero che la forza e la coerenza della loro arte, assieme anche col rarefarsi nel jazz di grandi, credibili figure di riferimento alla lunga li hanno portati maggiormente all’attenzione di un pubblico e di una critica anche di non spiccata vocazione all’avanguardia: ma non quanto Mitchell, Smith e compagni meriterebbero.

 
Lo scorso anno il festival di Roccella fu costretto ad un drastico ridimensionamento dell’ultima ora del cartellone, con recupero poi in inverno: per compiacersi che Roccella Jazz sia riuscito quest’estate a tornare in carreggiata, pur con un budget che non è più quello degli anni ruggenti, basterebbero di per sé l’unica data in Europa della stagione di Mitchell e una delle due di Smith che il festival ha ospitato (l’altra di Wadada è stata a Lisbona, dove, nella prestigiosa Jazz em agosto della fondazione Gulbenkian, il trombettista ha presentato, con la partecipazione di Threadgill, la sua The Great Lakes Suites).

 
Nella prima della quattro sere finali al Teatro al Castello in cui fra mercoledì e sabato Roccella Jazz ha avuto il suo clou, è il batterista Tani Tabbal ad aprire il set del trio di Mitchell: segue una partitura del sassofonista, dando vita ad una introduzione piuttosto severa, con una pulsazione rada ma che si fa sentire in maniera regolare, e vengono in mente i solo di batteria di Max Roach. Poi il drumming si scioglie, parte anche il contrabbasso e al sax alto Mitchell con la tecnica della respirazione circolare comincia a suonare ossessivamente, senza soluzione di continuità, una successione di poche note, prima di abbandonarsi ad un’improvvisazione densa, incalzante, rapida, ma senza niente di esasperato, di eccessivo, qualcosa che fa pensare ad un flusso di pensieri accelerato.

 

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Mitchell procede per lunghi segmenti, intercalati dall’azione del basso e/o della batteria: ciascun segmento, accompagnato dai partner o in completa solitudine, è caratterizzato in maniera diversa, ciascuno è retto da una precisa tensione compositiva interna, e nello stesso tempo sembra proporsi come elemento di una composizione più generale, l’intero set. Il secondo segmento, al sopranino, è memorabile: prodotto di un virtuosismo tecnico prodigioso, l’effetto è quello di un fascio di suoni acuti, affilati, in cui a tratti è come se Mitchell riuscisse a tenere un suono particolarmente acuminato e sottile come base e ci ricamasse sopra. In un altro segmento inizia al soprano con un suono più caldo, ma il flusso presto deraglia, si macera, si fa imprevedibile, e in assenza di un discorso convenzionale, ti accorgi di rimanere inchiodato da un lato per sentire dove andrà a parare, dall’altro a fare attenzione ai singoli elementi, invece che – come convenzionalmente avviene nell’ascolto – ad uno sviluppo complessivo.

 

 

Poi ancora, sempre al soprano, un’improvvisazione satura, ma non parossistica e molto presente a se stessa, lucida: che però ha sull’ascoltatore un effetto di transe. Infine Mitchell torna all’alto, e di colpo ineffabilmente intona lo struggente motivo di Odwalla, la sigla dell’Art Ensemble of Chicago alla cui fama il nome di Mitchell è soprattutto legato presso il pubblico meno di nicchia: un geniale salto di registro, come se il terapeuta Mitchell volesse concludere la seduta di ipnosi e richiamare i suoi pazienti-ascoltatori alla realtà.

 
Ma la classe con cui il sassofonista sull’accattivante andamento di Odwalla presenta i musicisti, ringrazia e saluta, è quella del grande mestiere e della grande arte dello spettacolo nero, quasi che Mitchell stesse concludendo uno show alla testa di una spettacolare orchestra o di una scatenata band di rhythm and blues: chapeau. Conforta che alla fine gli applausi siano stati veramente convinti.

 
Improvvisazione e composizione anche con il Golden Quartet di Leo Smith, ma in una logica diversissima. Se da un lato naturalmente Wadada non si propone come il solista che improvvisa spalleggiato dagli altri, però con questo quartetto nemmeno dà vita ad una vera dinamica di improvvisazione di gruppo. Con partner eccellenti come Anthony Davis al pianoforte, John Lindberg al basso e Pheeroan Ak Laff alla batteria, Wadada tende piuttosto a far allestire una scenografia sonora, a evocare un paesaggio all’interno del quale collocare i suoi interventi alla tromba.

 

 

L’elemento estemporaneo c’è, ma è dato soprattutto dalle indicazioni che con vistosi gesti Smith impartisce ai musicisti perché ad un certo punto si muovano in un certo modo o prendano una certa direzione, ma sulla base di partiture, di canovacci o di snodi preordinati. In realtà Wadada suona con molta economia con gli altri, che a volte in trio procedono in una maniera informale dagli accenti tayloriani, o quando Davis passa alla tastiera elettrica evocando climi da Miles Davis elettrico. Qua e là, soprattutto su momenti più quieti e riflessivi, Wadada sigla la musica con la cifra della propria tromba. In uno dei passaggi più felici, Wadada è accompagnato in maniera estremamente sottile unicamente da Ak Laff, che poi continua in un assolo rarefatto e solenne. Ma più volte Wadada interviene senza accompagnamento, in spazi che fa appositamente aprire nella musica: con molta parsimonia, cosa che assieme ad un certo portamento aristocratico del suo gesto musicale, alla concentrazione, all’essenzialità e ad un lirismo a volte sognante, conferisce ai suoi interventi un carattere quasi ieratico.

 

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Adesso, il 6 settembre, assieme fra gli altri a Threadgill e George Lewis e a Muhal alla loro guida, Roscoe Mitchell e Leo Smith parteciperanno ad una rara reunion della cruciale formazione costituita da Abrams nei primi anni sessanta, la Experimental Band, che si esibirà al Chicago Jazz Festival. Mitchell in duo col batterista Mike Reed, rappresentante di una più giovane generazione dell’avanguardia di Chicago, Smith col suo Golden Quartet, e Threadgill col suo ensemble Double-Up saranno poi il 19 ottobre allo Châtelet di Parigi per una serata in occasione dei cinquant’anni dalla nascita (15 maggio 1965) dell’AACM, la storica e sempre attiva Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago.

 
Come titolo Roccella Jazz 2015 ha scelto African Noises, memore anche dell’intestazione «Rumori Mediterranei» a cui dopo tanti anni il festival ha rinunciato. Le giornate conclusive della rassegna hanno in effetti avuto come filo conduttore – accanto ai due grandi della «scuola di Chicago» – la proposta di alcuni gruppi variamente in debito con la musica marocchina, del sassofonista nigeriano Orlando Julius assieme con i britannici Heliocentrics, e della cantante ivoriana Dobet Gnahoré. Delle declinazioni della musica marocchina la più convincente è apparsa quella di Gabacho Maroconnection, formazione mista marocchina, francese e spagnola con una world music a base di gnawa, flamenco, jazz, fusion, idee e soluzioni molto piacevoli e un repertorio vario e vivace: un gruppo emergente e che sta ancora facendo rodaggio da tenere presente. L’accoppiata Orlando Julius e Heliocentrics può divertire – e ha divertito molto il pubblico di Roccella – tra highlife, afrobeat, afrosoul, rhythm’n’blues e funky, ma è certo di grana più grossa di quella molto più sofisticata del gruppo britannico con il padre dell’ethio-jazz Mulatu Astatke.

 
Ha fatto colpo, e non stupisce, Dobet Gnahoré. Trentatre anni, molto carattere nel cantare, un repertorio allo stesso tempo accattivante ed elegante e robusto, professionalità e una gran classe in scena, Dobet riesce da anni ad ottimizzare in uno show di tutto rispetto mezzi molto ridotti, un quartetto voce, chitarra (il bravissimo chitarrista francese Colin Laroche, suo partner storico, che ha studiato gli stili africani in Costa d’Avorio), basso e batteria. Dobet canta disinvoltamente in francese, inglese e diverse lingue africane; suona in alcuni brani il likembe o le congas; di temperamento come il suo canto, i brevi, frenetici, perentori break di danza che inserisce a volte nei brani sono folgoranti: si è formata alla severa scuola di arti (canto, musica, teatro, danza) guidata ad Abidjan da una artista-intellettuale come Were Were Liking, e ha avuto come esempio il padre, Boni Gnahoré, musicista sconosciuto in Europa, ma bandleader, vocalist e percussionista di grande livello e reputazione.

 

 

La buona notizia è che Boni l’ha adesso raggiunta in Europa, in Francia, dove Dobet vive da una quindicina d’anni, e  brani il likembe o le congas; di temperamento come il suo canto, i brevi, frenetici, perentori break di danza che inserisce a volte nei brani sono folgoranti: si è formata alla severa scuola di arti (canto, musica, teatro, danza) guidata ad Abidjan da una artista-intellettuale come Were Were Liking, e ha avuto come esempio il padre, Boni Gnahoré, musicista sconosciuto in Europa, ma bandleader, vocalist e percussionista di grande livello e reputazione. La buona notizia è che Boni l’ha adesso raggiunta in Europa, in Francia, dove Dobet vive da una quindicina d’anni, e che a breve lo vedremo nel gruppo della figlia.