La carne è triste. Dalle favelas di Rio de Janeiro alla Detroit del 2028. Il passo non è poi tanto lungo. Com’era ampiamente prevedibile, ritroviamo José Padilha, il regista di Tropa de elite 1 e 2, a Hollywood e alle prese con un remake di quelli scomodi, di quelli che i fan dell’originale ti aspettano con il coltello fra i denti pronti a scuoiarti. Premesso che il RoboCop di Paul Verhoeven è irraggiungibile e intoccabile è altrettanto vero che l’irriverente olandese non ha avuto molta fortuna sinora con i remake dei suoi capolavori. Prova evidente il parziale fallimento di Total Recall – Atto di forza di Len Wiseman il quale, pur non essendo un genio, sa bene di cos’hanno bisogno i frequentatori di multiplex. Insomma: nutrire seri dubbi su tutta l’operazione RoboCop il remake prima ancora di mettere piede in sala era più che legittimo. Anche perché, francamente, si continua a non comprendere questo vampirizzare ciclico di titoli e franchise a unico benificio, si fa per dire, delle nuove generazioni di consumatori.

Restiamo in attesa del reboot di Mad Max per completare questo riciclaggio dei cardini del cinema fantastico degli anni Ottanta. Se poi a tutto ciò si aggiunge il fatto che Padilha è (più o meno) l’esegeta della forza usata contro la gente delle favelas, truppe addestrate dai militari israeliani (come rivelato nel documentario Hamaabada – The Lab di Yotam Feldman), non dovrebbe stupire più di tanto che ci si avvicina al nuovo RoboCop con una certa prudenza.

Invece, ed è una conclusione che anticipiamo, Padilha si disimpegna con notevole acume strategico. Il film parte subito in quinta con una situazione con la quale nemmeno i gabinetti otturati dell’ambasciata iraniana a Londra di Red 2 possono competere. Un telegiornale-promozionale trasmette in diretta un servizio sull’utilizzazione per le strade di Tehran di unità da combattimento robotiche. Il senso della manovra è di far accettare al congresso l’idea che se può funzionare in Iran può funzionare anche a casa. Samuel L. Jackson, con una pettinatura da blaxploitation doc, straparla di vite americane e patriottismo come un Bill O’Reilly in acido mentre dietro le quinte, un Michael Keaton mai così in palla da molti anni a questa parte, tenta disperatamente di trovare il modo di farsi comprare le sue macchine dal governo.

Questo preambolo, che serve sostanzialmente a Padilha come intro prima di riprendere il tema principale dell’originale scritto da Edward Neumeier, dimostra se non altro che il regista di Tropa de elite i compiti li ha fatti sul serio.

Tutto il sotto-testo satirico e polemico dell’originale verhoeveniano è sviluppato e adattato alla nuova situazione politica statunitense. Non è un caso che sia Detroit, ex fulcro della lotta di classe statunitense, centro operaio collassato, il ground zero dove restaurare la legge e l’ordine.

Ciò che cambia sostanzialmente è l’estetica della macchina RoboCop. Alla ferraglia di Verhoeven, che a suo modo presagiva le contaminazioni fra ciò che restava dell’era industriale e i primi vagiti cyberpunk, ampliamento in direzione cronenberghiana della riflessione sulla nuova carne sviluppata dal New Horror ottantesco, si sostituisce un’anonima eleganza digitale del design. Una voluta riduzione di complessità delle asperità di superficie e una maggiore aereodinamicità.

RoboCop si muove ora come l’estensione di un algoritmo incatenato ancora per poco alla macchina e non più come un goffo Prometeo libero delle sue catene industriali, novello Frankenstein di un principio d’individuazione rifondato.

Padilha si concede molto tempo per mettere in scena la progressiva eliminazione dell’elemento umano dal binomio carne-macchina accompagnandolo con ironici e progressivi slittamenti del look.

Più la macchina diventa leggera, più il design si fa elegante. Non è un caso che nel film di Verhoeven il confronto finale si verificasse sul terreno di una fabbrica dismessa. RoboCop 2014, invece, si presenta come un oggetto di puro design cyber e non è un caso che gli enormi quadri alle spalle della scrivania di Michael Keaton cambino in continuazione. L’arte contemporanea avrà anche anticipato i tempi, ma il design digitale è senza ombra di dubbio il vero presente dell’arte contemporanea.

Padilha, insomma, ha penetrato a fondo i sotto-testi di Verhoeven. Meno la sua estetica profondamente medievale. Clamoroso assente, il sangue che nel capostipite scorreva a fiumi. Da buon fiammingo con lo sguardo puntato sulla tradizione macabra tedesca, Verhoeven celebrava come un rito di sangue il tramonto della carne e il sorgere della macchina mentre Padilha, pur omaggiando Rembrandt, preferisce una lezione di anatomia stilizzata, clinica nel suo nitore. Una costatazione attonita, senza urla e furore. Un mero dato di fatto. Il ciclo industriale della carne è finito.

Insomma, pur essendo il prologo iraniano la cosa migliore di un film che serve soprattutto come dimostrazione dell’adattabilità di Padilha all’industria hollywoodiana, il nuovo RoboCop non è il disastro annunciato che pur era legittimo attendersi.

E questo è merito anche di un cast che vanta nelle seconde file nomi come Michael K. Williams (The Wire), Jay Baruchel (Facciamola finita), Aimee Garcia (Dexter) e Jackie Earle Haley (il Freddy Kruger post-Englund).