La sua storia «padana» sullo speciale a fumetti realizzato nel 2011 per il quarantennale del manifesto aveva il gusto acido della satira e dei retini duo-tone. Ora Roberto Recchioni torna a bucare gli schermi con il primo serial a colori di Sergio Bonelli Editore, «Orfani». E ci racconta tutto. Meglio: si racconta. In una intervista a 360°.

Fra gli autori italiani sei quello che attualmente gode della maggior visibilità. Pro e contro della vita sotto i riflettori.

Ho sempre pensato che per mettere il fumetto in primo piano nello scenario culturale italiano c’era bisogno di maggiore presenza. Non puoi intervistare Dylan Dog, ma potresti intervistare Sclavi…. in tutti i media, in genere, il ruolo di protagonista spetta a chi realizza le opere d’ingegno. Nel fumetto, a chi le vive. E la mancanza di rilevanza però è la ragione per cui in Italia gli editori di fumetti hanno sempre avuto il coltello dalla parte del manico rispetto agli autori. I personaggi non chiedono aumenti e non se ne vanno, gli autori sì, è per questo che non c’è mai stato un reale interesse a «spingere» sugli autori. Ecco, questa cosa, dal mio punto di vista, andava cambiata. Quindi, complice anche il web, ho speso molte energie in questo senso. C’è una componente di esibizionismo e egocentrismo? Certo. Ma si concilia con una necessità reale. Il lato brutto della cosa è che oltre ai fan (a volte, sgradevoli pure loro), arrivano pure matti, stalker, haters & C.

Testi, disegni, articoli di critica fumettistica, videogiochi… La tua bulimia produttiva è stupefacente, anche considerando gli acciacchi cronici che hai esorcizzato nel Dylan Dog «Mater Morbi». C’è del metodo in tanta schizofrenia?

L’unico metodo è «una cosa alla volta». In realtà, mi piacerebbe stare a grattarmi la pancia. Ma è un buon momento, nel mio piccolo posso influenzare in maniera significativa il fumetto italiano e il suo mercato, posso creare lavoro per gli autori che trovo validi (e questa è la cosa più importante di tutte dal mio punto di vista) e, se non ricchezza, almeno stabilità. Lavorare duro non è solo una che posso fare ma è una cosa che «devo» fare. Un dovere morale.

Rispetto agli altri fumetti Bonelli su cui hai lavorato, «Orfani» è una serie slegata dall’aderenza a una continuity storica o narrativa. Al di là del citazionismo connaturato al tuo stile, quali «paletti narrativi» avete scelto per delimitare il percorso?

Non mi ritengo e non mi sono mai ritenuto un citazionista. Io sono solo un esponente di una generazione che ha preso molto sul serio cose che prima non venivano prese sul serio. Il mio stile è figlio delle cose che amo e che fanno parte di me. Una «citazione» è una cosa altra da te, un elemento che tu utilizzi per riprodurre un certo tipo di linguaggio. Se lo fai in maniera consapevole e strutturata, sei un post-modernista. Ma io non mi sento tale. Quanto ai paletti narrativi, me ne pongo sempre e solo tre: deve essere una bella storia, deve leggersi in maniera limpida, deve avere un ritmo che ti inchioda.

Per molti autori completi, sceneggiare significa prima di tutto trascrivere le immagini disegnate che ballano nella scatola cranica. Ma normalmente, tu balli in Black & White. La novità del colore ha comportato un cambio di prospettiva?

Non proprio. Il colore per me è uno strumento di comunicazione al pari del disegno, degli effetti sonori, dei balloon e dei testi. Non mi interessava fare un fumetto «colorato», mi interessava fare un fumetto a colori, dove ogni cromatismo significasse qualcosa in termini emozionale e di racconto.
In questo senso, il colore ha solo arricchito gli strumenti utili per raccontare una storia senza doverla spiegare strettamente con le parole (sono uno dei pochi sceneggiatori di fumetti allergici alla logorrea).

Attualmente, quali fumetti hai sul tuo comodino? E quali nella lettiera del gatto?

Ho letto da poco il nuovo libro di Gipi, Una Storia (ndr che è stato presentato a Lucca Comics e Games), che per me è la sua opera più bella e i primi due volumi di «Saga», che mi sono piaciuti molto. Nella lettiera del gatto non ci metto fumetti brutti. Il mio gatto ha classe.

Visto che ormai hai messo le mani anche su mostri sacri come Tex e Dylan Dog, trova un personaggio italiano su cui non hai ancora lavorato e ti piacerebbe lavorare. E magari, raccontaci perché Diabolik è uscito dal tuo radar.

Mi balocco da anni con l’idea di scrivere una storia di Zanardi ai nostri giorni, in questa Italia che è diventata la messa in pratica del sogno-incubo di un singolo ometto. Ma è solo un trastullo mentale: se qualcuno mi proponesse di farlo, rifiuterei.
Quanto a Diabolik, ho smesso di scriverlo perché non pensavo di essere adatto a farlo. Ho imparato moltissimo sulle sue pagine e la mia scrittura si è ripulita grazie all’esercizio di disciplina che Diabolik impone, ma penso di aver appreso da lui tutto quello che potevo e non penso di poter arricchire il personaggio in nessuna maniera utile.