Nel campo della fotografia, il goriziano Roberto Kusterle, classe 1948, potrebbe essere classificato fra gli eccentrici e visionari: un mondo surreale, il suo, costruito battendo la terra friulana fra il greto riarso dei fiumi e le montagne più ruvide alla ricerca del luogo migliore per inscenare apparizioni di romantica, scabra inquietudine.

Prima che l’avvento del digitale ampliasse le possibilità e le occasioni di montaggio delle immagini, infatti, la sua fotografia si basava sul travestimento, su un intervento concreto di manipolazione e assemblaggio di corpi e paesaggi: ritratti cosparsi di piccolissime conchiglie, uomini-iguana dalla schiena piena di aculei, mitili e crostacei come parure di gioielli su corpi vestiti di cefalopodi, e altre metamorfosi frutto di un’inventiva eccitata, ma con una consistenza plastica molto concreta. Il senso di smarrimento di fronte alle sue immagini più belle, pur nell’elegante alterità di un umbratile bianco e nero, viene proprio dal pensiero che le situazioni più strane e inaspettate, per un attimo, sono uscite dalla dimensione del sogno (o dell’incubo) per occupare uno spazio tangibile.

Prima di scoprire la fotografia come strumento d’elezione, però, nel corso degli anni settanta e ottanta Kusterle era stato un artista sperimentale, e si era cimentato con tutte le possibili tecniche di alterazione dei materiali: escoriazioni superficiali del legno, bruciature, qualche cenno di dripping, vere e proprie sculture polimateriche da parete. Per non mettere tutto sotto l’ala protettiva di Alberto Burri, la ricerca delle fonti a cui di volta in volta avrà attinto, più o meno consapevolmente, potrebbe essere ampia, e si dovrebbe per questo sostare a lungo nella prima sala di Kusterle, Compendium, la grande mostra antologica dedicatagli dai Musei Provinciali di Gorizia presso Palazzo Attems-Petzenstein (fino al 13 novembre; catalogo Studio Faganel, pp. 348). Ma questo non spiegherebbe alcuni dei risultati più felici di quella stagione, come le due Vele del 1985, assemblaggi di tessuto, legni ricurvi e cordami, che somigliano a monumentali stendardi allegorici e costituiscono il vero punto di partenza per capire il lavoro di Kusterle fotografo e la sua sensibilità per le superfici scabre – o per la ruvidità della pelle umana – portate nel tempo ad alti livelli di sofisticazione.

Raggiunti più o meno i quarant’anni l’artista goriziano decise infatti che il corpo sarebbe stato il tema dominante della sua ricerca, e cominciò a coprire i modelli di uno spesso strato di fango e a concentrarsi sulle conseguenti screpolature epidermiche: sono frammenti di torsi o di arti, a volte cinti da funi o altri accessori, colti in azione, come se l’occhio del fotografo avesse documentato dei momenti di un rito tribale estemporaneo quando invece si trattava di atti performativi pianificati da Kusterle stesso a favore d’obbiettivo.

Non era mancata una fase sperimentale, in cui l’immagine fotografica veniva ibridata con inserti oggettuali: scatti di volti messi in serie l’uno accanto all’altro, immersi in un bagno di resina, inglobandovi montature d’occhiali, oppure denti e protesi dentarie entro cavità orali spalancate, forate dall’artista come porte d’accesso ad antri misteriosi. Di primo acchito l’occhio non coglie la presenza spuria, anzi ha la sensazione di essere di fronte a una fotografia sfocata, magari consumata dai sali d’argento, e solo quando ci si accorge dell’intervento manuale l’immagine provoca un certo turbamento.

In un altro caso, col retablo de La sacra tovaglia, Kusterle aveva spostato invece la sua ricerca nel campo dell’analisi antropologica: partendo dalla reliquia di Valvasone – un frammento di stoffa macchiato dal sangue di Cristo – aveva messo insieme una successione di immagini che sviluppavano un ragionamento a tappe sulle forme del sacro, fra oggettività etnografica e accostamenti irrituali, indugiando senza fare sconti nelle pieghe recondite e perturbanti della devozione.

Ma il vero punto cruciale dell’immaginazione allucinatoria di Kusterle sta nell’intervento ambientale che precede lo scatto: una ricognizione fra campagne e corsi d’acqua, coste marine e scenari montuosi della sua regione, in cui poter inserire presenze stranianti, o intervenire con minimi segni, all’insegna di una spartana, disadorna povertà di mezzi, capace di creare una fantasmagoria senza costosi effetti speciali.
Nel cretto di un fiume in secca, per esempio, si troveranno due donne velate intente a cucire con grandi aghi le zolle riarse, come a voler medicare una terra ferita e violata; in un altro, nello stesso luogo, un’arcana scrittura d’invenzione occupava ogni spazio, dalla terra ai corpi dei figuranti.

Ogni foto, quindi, diventava un lavoro collettivo, che coinvolgeva una piccola comunità cittadina di persone che nel tempo hanno prestato il loro volto o il loro corpo alla fantasia di Kusterle, e che in certi casi ritornano da uno scatto all’altro, da una situazione improbabile ad una ancora più straniante.
Si potrebbe elencare un lungo repertorio di immagini e argute invenzioni, tutte contraddistinte da una certa letterarietà, quasi un libro dei sogni. Uomini-pesce a mezz’acqua, per esempio, indossano come maschere vere teste di tonni, fra Ernst e Magritte, descritte con cura analitica e messe poi alla prova da un laborioso lavoro di camera oscura. Lumache passeggiano sul volto inumidito di modelli e amici; mentre piccolissime conchiglie prendono la foggia di arcimboldeschi copricapi. Oltre al corpo, Kusterle ha reinventato il ritratto, rispettando le convenzioni del profilo rinascimentale su fondo scuro, costellandolo al contempo di presenze spurie, di indumenti e copricapi ricavati da piante e animali, come orpelli a corredo di un arcano rituale tribale.

L’avvento del digitale, a questo punto, non avrebbe fatto che ampliare il ventaglio delle possibilità combinatorie, rendendo percorribili strade prima irrealizzabili nell’ibridazione tra figura e natura. Ora, insomma, Kusterle può inscenare la metamorfosi in atto: fa germogliare i corpi, mostra in trasparenza un’interiorità arborea, o ancora sovrappone più scatti moltiplicando gli incastri e le interazioni, senza tuttavia modificare gli statuti del dispositivo di partenza.

Questo non vuol dire aver rinunciato a costruire come un paziente artigiano scene e costumi, ma aver portato quella logica associativa a un livello di maggior complicazione, consentendo mutazioni di materia – come in certi animali calcificati come pietre – e soprattutto l’unione sempre più ardita di forme e tessiture di immagine, senza intaccare mai l’irraggiungibile bellezza di certi profili all’antica dall’altero sussiego.
Ma i modelli di Kusterle, quando non sono delle maschere, serrano le palpebre e non vedono l’inquieta messa in scena di cui sono protagonisti: come se, una volta aperti gli occhi, quel mondo fantastico potesse sparire, ricacciato nell’ombra o nell’inconscio.