Nel 1928, negli Stati Uniti, Lyman Young crea un fumetto che avrà vita lunga e quando cesseranno le pubblicazioni, continuerà in Italia ad essere riproposto con le testate più disparate per ancora molto tempo. Stiamo parlando di «Cino&Franco», la storia di due orfani che fanno fronte comune di fronte ad eventi disparati ed avventurosi, una sorta di Indiana Jones ante litteram, dove è Franco che ci ricorda più da vicino il nostro Roberto Girometti: asciutto, fronte alta, sguardo franco e sicuro, a tratti spavaldo, certo di vincere sempre i marosi che le circostanze gli impongono di navigare. Con il sorriso sicuro di chi è uscito fuori, sempre, da avventure che hanno dell’incredibile ed è pronto adesso, con sicurezza, a ripercorrere sentieri già calpestati parlandone con noi al suono di tamburi lontani.

Come posso non chiederti, come prima cosa, dell’intervista che faceste a Salvador Allende?
Nel 1968/’69 io lavoravo alla San Diego Cinematografica di Renzo Rossellini. Eravamo un gruppo di amici: io, Renzo, Vincenzo Cerami, Emidio Greco, Augusto Caminito. Un paio di anni dopo – avevo già fatto un paio di film con Renzo- vediamo irrompere in ufficio Roberto Rossellini. «Ho bisogno di un giovane operatore, ho sentito parlare di un certo Girometti». «Eccolo!», dice Renzo indicandomi. Io ero già stato nel ’70 a Cuba con Ferrara. Per fartela breve, due giorni dopo eravamo a Santiago del Cile ed io cominciavo a girare per la città con la macchina in spalla. Un giorno sono sotto il palco da dove parla il Presidente, io mi avvicino, evidentemente troppo, e sento arrivare un pugno allo stomaco che mi fa piegare in due. Era uno del servizio d’ordine al quale, cadendo a terra, riservai subito un sonoro «hijo de puta!». Dopo una settimana, eccoci all’intervista, a casa di Allende in calle Tomas Moro, insieme a Renzo e a Emidio Greco. E Allende che mi chiede: «Quien es el hijo de puta?». Mi stavo vergognando come un ladro allorché esplose in una risata fragorosissima: «?Como estás tu estomago?» mi chiese a bruciapelo il Presidente. Insomma, dopo l’intervista ci fermammo un mese in Cile, girandolo in lungo e in largo, fino alla Terra del Fuoco. Per un insieme di ragioni, il documentario andò perduto… ci fermammo a pranzo una volta, a casa sua, e in quel contesto scoprimmo quanto fosse allegro, spiritoso, in un’atmosfera rilassata e il rapporto sembrò essere del tutto amicale, al di là dei rispettivi ruoli.

…ma l’intervista non è andata perduta…
No, no, l’intervista esiste eccome, si trova in dvd e si chiama La forza e la ragione.

Che impressione conservi dell’uomo?
Era un uomo di grande carisma, e molto allegro, particolarmente alla mano. Gli americani avevano da subito cominciato a rimestare nel torbido.

Non è più un mistero che caccia americani bombardarono la Moneda con il beneplacito di Kissinger. Com’era Roberto Rossellini?
Beh, a parte la immensa cultura cinematografica, era dotato di una ironia straordinaria.
Serbi un ricordo particolare di lui?
Sì, certo, ricordo che volle andare a trovare un prete belga, padre Lepege, che viveva in un paesino delle Ande: era quello che aveva scoperto le mummie del deserto di Atacama. Poi ci capitò di entrare in un teatrino «scaciato» dove venimmo a sapere che lì si era esibita la Bella Otero.

Com’è nata, invece, l’intervista a Fidel?
Si approntò con Gianni Minà un piano di lavoro e io stilai la bellezza di 120 domande, su richiesta di Minà stesso e ci si domandava se avremmo avuto tempo per le risposte. Rispose a tutte le domande. Mi ricordo il tormentone che gli affibbiai: come vuole essere chiamato? gli chiedevo a intervalli regolari ma senza avere risposta. Alla fine rispose con tono grave: «Yo soy el Comandante!».

Come lo ricordi Fidel?
Un uomo di grande empatia, uno che dall’alto del suo metro e 85 riempiva la scena. Poi un giorno, tra una parola e l’altra, ci chiese cosa avremmo fatto il giorno dopo. Era evidente che eravamo completamente liberi di seguirlo, di approfondire. L’appuntamento era al Teatro Karl Marx dove degli studenti accusavano il loro preside di metodi paternalistici. Insomma, assistemmo a un confronto serrato durante il quale gli studenti mossero delle accuse al professore, accuse che sembrarono fondate. E Fidel Castro, in disparte per tutta la durata del contraddittorio, prese le difese degli studenti ammettendo, da quello che era uscito dal confronto, che quel preside non aveva trovato il modogiusto di trattarecon loro. Sai che ho fatto un film sul «Che»…

Ovviamente. Che ricordi hai?
Io conoscevo bene Alberto Granado, l’amico che l’aveva accompagnato nel famosissimo viaggio in motocicletta. Nel film, Rodrigo de la Serna impersonava Granado e il «Che» era impersonato da Gabriel Garcia Bernal.

Ti farò una domanda solo apparentemente banale: in quei momenti – e voglio riferirmi ad Allende, a Fidel – avevi la consapevolezza di «toccare» la Storia o era un lavoro come un altro, solo con interpreti un po’ più importanti?
No, no, avevo la piena coscienza di interagire con personaggi di quel calibro, persone che avevano già scritto pagine di storia, soprattutto Fidel. Poi, lo sai bene, quando lavori sei preso dalle cose tecniche: i cavi, gli obiettivi, magari un momento di nervosismo causato da una tua disattenzione o semplicemente da un ritardo, una sosta improvvisa per riannodare il bandolo della matassa durante la quale c’è un calo di tensione ma, per le generali, tu sai che stai parlando con il Comandante, con Fidel Castro e con Salvador Allende che è certo un rivoluzionario ma è anche un uomo elegante, seduto nel salotto di una casa borghese, e non penseresti mai che di lì a poco imbraccerà la mitraglietta che gli ha regalato proprio Fidel, disposto a difendere con le armi la sua rivoluzione.

Tu nasci con La settimana Incom.
Eccome! È stata una grande scuola. Si partiva il lunedì e si stava fuori tutta la settimana. La Incom aveva una convenzione con le Ferrovie dello Stato che recapitavano in tempo reale i filmati, pronti per la proiezione. Da ultimo ho cominciato ad insegnare cinema. Felice Laudadio e Veltroni si sono inventati questa cosa della Casa del Cinema. Io cominciai con tre lezioni a settimana:la sala era gremita, i ragazzi erano sempre molto interessati. Ci inventammo persino un calembour: «Gli adulti debbono essere accompagnati dai bambini»…

Cosa resta di Roberto Rossellini?
Rimane un maestro del cinema italiano e internazionale. Lo so, lo so che stai per dirmi:Visconti, Fellini ma dopo Roma città aperta,Paisà, Roberto è in fuga… non so se mi capisci.

L’esperienza più interessante?
Mah, quella maturata nel tempo, a contatto con tanti registi e amici di ventura: con Enzo Castellari, Sergio Martino, i film con Bud Spencer, con Marcello Gatti. I 4 dell’Ave Maria, al di là del genere, fu estremamente formativo. Ho fatto 90 film come direttore della fotografia e i nomi si accavallano: Giancarlo Nicotra, Giuliano Ferrara de Il testimone. Di Roberto Rossellini abbiamo parlato a lungo, Romolo Guerrieri, Beppe Ferrari ed il caro, carissimo Citto Maselli , che non sta bene e al quale va un saluto particolare.