I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo (Einaudi, pp. 224, euro 25) è un libro dove il filosofo napoletano Roberto Esposito racconta la storia di un archetipo biblico: la lotta del patriarca Giacobbe con un misterioso avversario che cambia di continuo il nome e il volto.

Roberto Esposito
Roberto Esposito

In questo saggio stratificato e prismatico, ricco di riferimenti che vanno dall’ermeneutica biblica alla psicoanalisi o alla storia dell’arte, Esposito dice di avere voluto «parlare di ogni lotta, pubblica o privata, laica o teologica, con l’altro e con sé stesso. Questa lotta è la vita stessa che intendo come uno scontro incessante con un Avversario sempre diverso che allo stesso tempo la minaccia e l’intensifica».

«La politica ne fa parte – osserva Esposito in un colloquio che abbiamo avuto nella sua casa ai Quartieri Spagnoli a Napoli – ma non è il suo soggetto primario, come invece in altri miei libri. Questa distanza dai miei lavori precedenti non va taciuta. Rispetto a essi il libro nasce da un’esigenza di allargamento dell’orizzonte e dunque di discontinuità».

La politica sembra però tornare in questo «Avversario». Nel libro lei lo tratta come un trascendentale. Gli dà anche un nome: «l’avversità». Indica una tensione antinomica tra uomo e Dio, ma anche di un’ostilità lacerante e senza fine con sé stessi e gli altri…
Della politica non ci si libera facilmente. Il protagonista del libro è il conflitto. È la storia di come, anche volendo parlare di qualcosa di diverso dalla politica, questa ritorni ad afferrare il mio linguaggio e anche la mia passione.

Nel 2010 ha scritto «Pensiero vivente». Da allora lavora sulla storia del «pensiero italiano». Una delle sue principali caratteristiche è l’interesse prevalente per la politica. Categoria polemica sulla quale, ogni giorno, ci scontriamo. Di quale politica, allora, stiamo parlando?
Per me la politica non è il cerchio più ampio che contiene tutto, ma fa parte di un orizzonte più largo che la contiene al suo interno, insieme ad altri elementi. In quest’ultimo libro il suo linguaggio si incrocia con quelli della filosofia, della teologia, della letteratura, dell’arte, della psicoanalisi. Certo, se si assume la politica nel senso di Carl Schmitt, vale a dire non come un ambito specifico dell’esistenza, ma come il grado d’intensità che percorre tutti gli ambiti, allora si può dire che questo è il libro più politico che abbia scritto, dal momento che il conflitto, o l’avversità, è affettivamente il trascendentale che dà origine all’esperienza umana e ne determina il destino.

Più che di lotta oggi si parla di guerra. E l’avversario è inteso più come un nemico. E questo è un modo di fare politica…
Senza dubbio. Ma il fatto che la lotta come forma costitutiva dell’esistenza – nel senso che già Eraclito dava al polemos, padre di tutte le cose – sembri diventata la guerra, sempre più diffusa nel mondo, implica una fortissima riduzione di complessità, oltre che una sciagura per coloro che la fanno e che la subiscono. Fare la guerra in senso materiale, con i cannoni e le bombe, per fortuna (ma chi sa fino a quando) non ancora nucleari, vuol dire travolgere il senso della vita, che io identifico con la Lotta. La riduzione dell’Avversario al Nemico esprime la stessa deriva negativa. L’Avversario di cui parlo nel libro è invece colui o ciò che, sfidandoci, ci identifica, rende attiva e vitale la nostra esistenza.

Che rapporto c’è tra lotta e guerra e tra avversario e nemico?
Di solito si ritiene che la categoria dell’Avversario sia meno intensa del Nemico perché è privato e non è pubblico. Il nemico è invece considerato «pubblico». E con lui si può, e anzi si deve, sempre trattare. A volte, con l’Avversario, proprio perché è ritenuto «personale», non è possibile farlo. Non per nulla una lunga tradizione chiama il diavolo non come il Nemico, ma come l’Avversario. Purtroppo da tempo si è perso il significato delle grandi parole.

Non mancano oggi immagini generali del pensiero che cercano di dare una spiegazione generale alla lotta. C’è la geopolitica, la sovranità, il nazionalismo, l’identitarismo. Sono possibili risposte a ciò che lei definisce l’enigma della lotta?
Assolutamente no. Direi anzi che ne costituiscono la negazione, la riduzione non solo della Lotta, ma anche della politica, alla guerra. La geopolitica è una disciplina che è entrata a fare parte del nostro lessico come un termine neutro, ma che è storicamente legato alla conquista degli «spazi vitali» nei primi decenni del Novecento. La sovranità è una categoria classica della politica, a partire da Bodin e Hobbes, ma anch’essa storicamente connessa non solo alla nazione, ma anche ai nazionalismi. L’identitarismo è una concezione che tende a rompere la relazione costitutiva tra identità e differenza a favore della prima. Al contrario la Lotta, nel senso che nel libro conferisco a questa espressione, si rivolge proprio alla differenza, è la Differenza stessa che da un lato ci interpella e dall’altro ci attraversa.

Tra i vari significati della lotta analizzati non c’è quello della lotta di classe. Eppure la tradizione marxista è piena di riferimenti escatologici o messianici. Come mai?
È un tema da approfondire e anzi da inserire nel quadro che ho costruito. Naturalmente le figure bibliche non hanno una connotazione del genere. Almeno nell’Antico Testamento, in cui gli scontri narrati sono tra popoli o tra singoli. Nel Nuovo Testamento le cose sono in parte diverse. Neanche lì, ovviamente, c’è lotta di classe in senso marxiano. Ma diversi episodi, e in fondo la stessa vicenda di Gesù di Nazareth, richiamano simbolicamente il confronto tra «ricchi» e «poveri», tra «potenti» e «deboli». Anche quando non esistono ancora le classi, il tema della povertà è uno di quelli che muove la storia e, in definitiva, tutte le relazioni umane.

Nella storia della lotta di Giacobbe con l’Angelo-Dio, lei si sofferma sulla ferita che l’Avversario gli ha lasciato. Dura per sempre ed è stata trasmessa al «popolo di Israele». È un’allegoria che spiega la situazione attuale della guerra?
Quando la guerra in Medio Oriente è iniziata il mio libro era già finito. Non c’è nulla che la richiami direttamente. Naturalmente nella figura di un uomo, in quell’occasione chiamato «Israele», attaccato all’improvviso da qualcuno si può cogliere una risonanza con quanto è avvenuto. Così nella ferita all’anca, che Giacobbe porterà sempre sul proprio corpo, si può vedere la ferita storica che da sempre segna il destino di Israele. Nel libro c’è poi un capitolo sul nemico «metafisico» di Israele, costituito dall’antico Regno di Edom, simbolicamente ricondotto alla potenza di Roma, che distrugge per la seconda volta il Tempio. Ma tutto ciò va letto in prospettiva, senza immediati richiami all’attualità.

Eppure nell’idea di una lotta che non ha soluzione, e in una vulnerabilità di fondo nei suoi protagonisti, si può trovare una forte risonanza con il presente…
Diciamo che se c’è un richiamo all’attualità in questo libro esso è dovuto al fatto che la «lotta» non finisce con la sconfitta di nessuno dei due avversari, ma con la loro riconciliazione e con la benedizione data dall’Avversario a Giacobbe. Come appare in tanti quadri che ritraggono la scena biblica, da Rembrandt a Chagall, la lotta contiene al suo interno anche la fratellanza e l’amore. I due avversari si battono, ma anche si stringono reciprocamente. Non è neanche concepibile la distruzione dell’uno da parte dell’altro. La guerra in corso dovrebbe ispirarsi a questo messaggio, escludendo assolutamente la distruzione dell’Avversario.

Dopo quelli di Cacciari e Agamben, un nuovo libro sulla figura dell’angelo. Come spiega questa frequentazione della teologia-politica da parte della filosofia italiana?
Cacciari e Agamben hanno scritto testi molto belli, anche se molto diversi, sul tema dell’angelo. Secondo Erik Peterson l’angelologia costituisce il luogo genetico della teologia politica, ma lo fa per liberare il cristianesimo trinitario da questa categoria, contro le tesi teologico-politiche di Carl Schmitt. Parlare degli angeli, significa parlare anche degli uomini, dal momento che, nella stessa tradizione cattolica, gli angeli non esisterebbero, non avrebbero una funzione, se gli uomini non esistessero. Anche a questa circostanza va legato l’enigmatico passo di Paolo in base al quale alla fine saranno gli uomini a giudicare gli angeli e non viceversa. Personalmente sostengo che la teologia politica sia una categoria che vada abbandonata a favore dell’ontologia politica, riconducendo la trascendenza all’interno dell’immanenza. Ciò non è facile perché tutto il nostro lessico politico ha una derivazione teologica, anche se, come sostiene Assmann, questo stesso fatto ha una ragione politica. La figura dell’angelo va intesa in questa vicenda millenaria.