Quando, nel 2001, esce una raccolta di lezioni di Roberto Calasso – La letteratura e gli dèi – uno dei maggiori poeti americani contemporanei, Charles Simic, la recensisce sulla «New York Review of Books». Per l’epigrafe iniziale Simic sceglie una frase di Stéphane Mallarmé: «Tutto, al mondo, esiste per finire in un libro». Quella frase contiene forse il miglior saluto da rivolgere a Calasso, nel momento in cui giunge la notizia della sua morte. È banale notarlo, eppure non può non colpire che la sua scomparsa arrivi proprio nel giorno in cui escono due suoi brevi libri autobiografici, uno dedicato a Bobi Bazlen, nume tutelare di Adelphi (Bobi); l’altro imperniato sui suoi primi dodici anni di vita (Memè Scianca), fino al 1954: tempo che appartiene a un altro secolo, certo, ma un secolo ormai più distante di quanto possa dire qualunque cronologia, anche la più precisa.

A PARTIRE DAGLI ANNI ’80 Calasso ha offerto ai suoi lettori una serie di opere di difficile definizione, quasi sempre in bilico fra la narrativa e il saggio. E muovendosi in una selva vertiginosa di nomi, da Omero a Baudelaire, da Kafka a Tiepolo a Talleyrand a Turing: con l’agilità di chi, forse, poteva essere tra gli ultimi ad aver letto davvero tous les livres. Si potrebbe dire, approssimando, che la mèta di questo lungo cammino siano state l’enigma della mente umana e la presenza degli dèi, appunto, «ospiti fuggevoli della letteratura». In questi quarant’anni Calasso ha toccato i temi più disparati, a cominciare dal fascino già arcaico per il sacrificio, fino al suo ritorno in quel momento cruciale, per la storia d’Europa, che è la Rivoluzione francese; o ancora, in anni più recenti, con i terribili episodi di terrorismo che hanno ferito a morte l’Occidente.

Oppure, si pensi a come algoritmi e intossicazione telematica fossero al centro di un pamphlet uscito solo nel 2017, Innominabile attuale. Un libro che mostrava anche le doti intuitive di Calasso, la sua capacità di annusare lo spirito del proprio tempo (provare, per credere, i paragrafi che, in tempi non ancora obbligati alla distanza virtuale, raccontavano la completa «trasposizione dell’universo in forma digitale», e il conseguente rischio mortale che informazione e fine di ogni «mediazione» comportano per il pensiero, o per ogni pratica politica). In tutto questo lungo e suggestivo polittico, Calasso sembra affermarsi, più che come un attento rifinitore di dettagli, come un creatore di larghi affreschi: La Folie Baudelaire, per esempio – uscita nel 2008 – non è solo un ritratto del maggior lirico della modernità europea.

È piuttosto l’impossibile tentativo di afferrare quella che il risvolto di copertina ribattezzava l’«onda Baudelaire»: un’onda che ha «origine prima di lui e si propaga di là di ogni ostacolo. Fra i picchi e i cavi di quell’onda si riconoscono Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Sainte-Beuve, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, Laforgue, Proust…». E un’analoga sensazione di coralità si ricavava già dalle pur diversissime Nozze di Cadmo e Armonia (1988) – grande inventario del mito classico – che resta probabilmente il suo lavoro più noto.

Eppure Calasso non andrà letto soltanto come un diagnosta del presente e come un imperterrito rabdomante del mistero, magari a volte anche troppo fiducioso nelle possibilità di quella che lui stesso chiamerebbe una «letteratura assoluta». Viene in mente, invece, proprio una pagina del Memè Scianca appena pubblicato, nella quale si racconta del padre e dei suoi favolosi libri. DI CERTE

PAROLE incontrate per caso, di cui Roberto subisce profondamente l’attrazione. Come la parola glossatori: «Di loro non sapevo niente, salvo che commentavano qualcosa, con le loro glosse. E questa idea di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire». Forse le pagine migliori, le più fascinose di Calasso, sono proprio quelle che fioriscono a margine di un altro testo: quelle in cui il lettore, il commentatore e lo scrittore non si distinguono, si saldano anzi inestricabilmente, in un amoroso esercizio di abnegazione.

Il Calasso «ultimo» è un Calasso tutto sommato inusuale, per chi ne conosca almeno un poco il percorso: uno scrittore più intimo, diciamo in maniche di camicia, non in una posa da ritratto ufficiale. Vi si avverte come l’esigenza di ricomporre qualcosa, di sistemare per l’ultima volta, dopo gli scaffali della propria biblioteca (Come ordinare una biblioteca era, non a caso, il titolo di un libello uscito appena l’anno scorso), anche gli scrigni fragili della propria memoria. Inevitabile è la tentazione di leggere, in questi tre titoli finali – cui andranno aggiunte le Allucinazioni americane, che hanno invece per protagonista il cinema, edite solo nel maggio di quest’anno – una specie di discreto ma intenzionale congedo.

Un congedo che riguarda i propri affetti così come il centro dei desideri, il vero dio della propria personalissima religione: il libro. Non può non spiccare il fatto che esistano, in effetti, due tipi di incontri altrettanto fondamentali, per il giovanissimo Roberto: quello con le persone e quello, appunto, con i libri. Simbolo del secolo che non c’è più, il libro è il vero protagonista della brevissima autobiografia consegnata a Memè Scianca: un «relitto amato» è, fra gli altri, un volume di poesie di Fargue, del 1963.

E PREZIOSISSIMA è l’edizione Crès delle Fleurs du mal – anno 1930 – il primo e unico libro rubato al nonno Codignola. «Il mio interesse per i libri – annota Calasso su un quaderno di scuola – ha origini abbastanza remote: anche quando non sapevo ancora leggere, amavo andare con grossi volumi sotto il braccio, su cui disegnavo strane e primordiali figure». Di questo amore misterioso, intellettuale e insieme artigianale, per un oggetto desueto eppure potente, Roberto Calasso è stato fra i più straordinari testimoni: un testimone per cui non possiamo non sentire gratitudine e nostalgia.