Un genio del calcio. Uomo schivo, ombroso, dal talento reazionario. Poco meno di 20 anni di gol, assist. Roberto Baggio, basta il nome. A pochi giorni dall’uscita del film, su Netflix, sulla vita del fantasista-attaccante vicentino, ecco Claudio Moretti e la biografia: Roberto Baggio, Il Divin Codino, La storia di un Campione dentro e fuori dal campo (Newton Compton Editori). Una serie di capitoli-pillole sui passaggi più significativi della vicenda umana e professionale di uno dei primi cinque calciatori della storia del calcio italiano. Amato, temuto, capito solo dal pubblico, dai tifosi, dagli appassionati di ogni fede calcistica. L’artista della rinascita, della caduta, della sconfitta, tre eliminazioni ai Mondiali ai rigori in altrettante partecipazioni, di quel rigore alle stelle contro il Brasile nel forno di Pasadena.

Il 1993
Baggio, il fenomeno che ha quasi sempre perso ma solo per le statistiche, che non sempre fanno pari con la memoria collettiva dello sport. Anche i sorrisi della sua carriera, dal Pallone d’Oro nel 1993 alla Coppa Uefa, conquistata nello stesso anno, a uno scudetto con la Juventus, vengono dopo. Prima viene Roberto Baggio.
La biografia custodisce un flusso di emozioni, date, ricordi del tempo che ne hanno reso immortale il percorso. Dai primi visi fatti girare di scatto sui campetti di Vicenza, alla sequenza infinita di infortuni, operazioni, rotture, lacerazioni, che hanno scritto una parte decisiva nella sua straordinaria carriera. E poi, gli amici di Baggio (pochi), gli ammiratori (tanti) e chi ha deciso di piazzarsi, come nelle vicissitudini dei più grandi dello sport, dall’altro lato della Luna, indossando i panni dei nemici per rendere più gustosa poi la vittoria all’eroe. Sì, Baggio è un eroe. Lo è per gli esteti del calcio, lo è per chi è caduto più volte e in apparenza è rimasto senza forze per rialzarsi.

I nemici
E dunque, tra gli oppositori ecco Giovanni Trapattoni, alla Juventus che poi Baggio ha trascinato al successo finale nella Coppa Uefa del 1993, antipasto del Pallone d’Oro e poi in nazionale, per i Mondiali del 2002 prima promessi poi svaniti. Baggio per recuperare dalla rottura dei legamenti a un ginocchio impiegò appena 77 giorni. Un miracolo 20 anni fa, senza la tecnologia e le tecniche di recupero che oggi rendono gli atleti un po’ marziani. Il Trap, che gli aveva promesso la convocazione, si smentì. E poi, nel conto dei nemici, Marcello Lippi, la nemesi di Baggio all’Inter. Un’antipatia naturale che poi divenne altro. Anche se Baggio, come con Trapattoni, provvide a salvargli la panchina, con una doppietta in uno spareggio con il Parma per un posto in Champions League. Perché il Codino, soprannome-feticcio per il retrociuffo che assai poco piaceva all’Avvocato Agnelli (come Moretti delinea chiaramente nella biografia), era solito risolvere la tenzone con il tecnico di turno con gol, assist, magie.
Era il suo repertorio, il calcio. La sua comfort zone, così come le battute di caccia con papà Florindo (poco citato nel testo) nei dintorni di Caldogno (il suo paese natale) e in Argentina, dove si rifugiava in estate, dopo una stagione di calci subiti e gemme regalate. E sempre il calcio è stato lo strumento per trovare un filo, dopo mesi di incomprensioni e un mezzo sciopero da parte di Baggio che rifiutò una panchina, con Renzo Ulivieri al Bologna nel 1998, anno dei Mondiali francesi poi negati. Ventidue gol, il massimo in Serie A, Bologna in paradiso e il Codino ai Mondiali, come vice Del Piero con delega di far sognare.

E poi c’è Arrigo Sacchi, forse l’emblema dei nemici di campo di Baggio, non per incompatibilità umana ma perché voce fuori dal coro nello spartito. Un jazzista, Chet Baker, nel suo calcio collettivo e mnemonico. Uno fuori posto, anche se il tecnico di Fusignano ha creduto nel suo talento anche nella fase in disgrazia alla Juventus di Trapattoni, incassando i dividendi ai Mondiali americani.

I maghi
Ma nella saga-Baggio saltano fuori anche personaggi determinanti e meno conosciuti come Carlo Vittori, il mago dei muscoli di Pietro Mennea, che prese a lavorare su quadricipiti e articolazioni del giovane Roberto, dopo l’infortunio di Vicenza, prima di germogliare alla Fiorentina.
Oppure, Moreno Torricelli, dalla segheria alla Juventus di Trapattoni prima e Lippi poi, custode dei segreti di Baggio durante la guerra fredda con il Trap, alla Juventus. E tra amici e nemici, caratteristi e personaggi presenti in tutta la carriera di Baggio, l’autore delinea il carattere dell’ex numero dieci della nazionale italiana, da sempre alla ricerca della fiducia, della comprensione, dell’empatia che però è arrivata solo con il pubblico, dal suo pubblico. Fino alla tendenza quasi ostinata a non godersi mai il momento, al pensiero negativo costante, alla miccia accesa con i cronisti sulle tracce della polemica per un titolo d’apertura.

Il Brescia
Sino agli allenatori, il suo cruccio, che soffrivano la sua grandezza e forse la sua tendenza a cercare solo l’affetto della gente. Uno dei pochi che l’ha capito, studiato, utilizzato al meglio è stato Carlo Mazzone, che Moretti disegna come l’architetto di una delle molteplici rinascite di Baggio, facendo emergere una delle verità della carriera del Codino, ovvero che Brescia è stata forse l’unica tappa serena di un campione diviso tra la gioia del pallone e gli ambienti inquieti. A Firenze, alla Juve, al Milan, all’Inter, pure al Bologna.

Il finale
Ed è per questo forse che la parte più riuscita della biografia sia l’ultima, gli ultimi capitoli, tra il Brescia e l’ultima esibizione, a San Siro, il 18 maggio 2004. Uno stadio in piedi ad applaudire, l’abbraccio di Paolo Maldini, la soddisfazione di aver concluso il viaggio da re, con le ginocchia aggredite da gonfiore, liquido, il peso delle cicatrici. Lì, su quel prato, l’eroe Baggio è stato sereno. Prima di San Siro, la famiglia, la moglie soprattutto, è stato il covo dei suoi sentimenti, delle sofferenze, dove si è alimentato il seme della rinascite. Dove è stato costruito il mito Roberto Baggio.