Dire che Robert Eisler era un eccentrico sarebbe un eufemismo: di certo era un erudito «favoloso». Scholem, che lo conosceva bene, lo descrive come il «più convincente conversatore», così luccicante da indurre al sospetto di trovarsi di fronte a «sintesi fantasiose», a numeri di bravura escogitati per magnificare l’estro del suo «genio combinatorio».
In effetti, il meraviglioso libro scovato dalla Adelphi, Uomo diventa lupo Un’interpretazione antropologica di sadismo, masochismo e licantropia, (Postfazione di Brian Collins, traduzione di Raul Montanari, pp. 408, euro 26,00), tratto dal testo di una conferenza alla Royal Society of Medicine di Londra nel 1948 di meno di 40 pagine e pubblicato con un gigantesco apparato di note e appendici, nel 1951, a due anni dalla morte dell’autore, sembra a prima vista un accumulo ansioso e labirintico di associazioni di pensieri, presi dalle discipline più disparate, a sostegno di una tesi tanto originale quanto imprevedibile.

Una vita accidentata
Il nucleo concettuale si direbbe semplice: distruttività e crudeltà non sono originarie della natura umana, sono invece il prodotto dell’evoluzione, dalla condizione preistorica di un primate che raccoglieva i frutti spontanei della natura, al branco dei cacciatori, che si nutrono di animali vegetariani e pacifici.
Eisler cerca di argomentare con ogni genere di documentazione, antropologica e storica, letteraria e religiosa, psicologica e archetipica, lo sviluppo della natura umana, passando da piccole tribù che sembra non abbiano conosciuto la guerra, fino ai sogni e ai miti traguardati in un’ottica junghiana. Ma se un evento è storico, per sua natura è reversibile: qui Eisler diventa uno scienziato sui generis, o meglio entra a far parte di quella schiera di persone che cerca nuovi fondamenti per l’utopia: nella fattispecie, il ritorno, dopo la caduta, al paradiso terrestre del Genesi. Abbandonata la maschera del «lupo», che ha contraddistinto la nostra storia, potremmo ridiventare pacifici, abolire l’aggressività e la gelosia gli uni degli altri.

Un’altra pista in questo libro singolare è quella biografica, che fa da sfondo al saggio di Brian Collins, opportunamente aggiunto al libro per contestualizzarlo: «Un pezzo troppo quadrato: la vita e l’opera di Robert Eisler». L’uomo aveva combattuto nell’esercito austriaco sul fronte russo e su quello italiano, poi era stato imprigionato, sopravvisse ai campi di Dachau e di Buchenwald, dove fu internato in quanto ebreo. Anche dal punto di vista religioso, tuttavia, Eisler è inclassificabile: ebreo per nascita si convertì al cattolicesimo per sposare una baronessa autriaca; ma confessò a Martin Buber, che ne rifiutò un saggio per la propria rivista, di volersi riconvertire all’ebraismo, cosa che non fece.

Ipotesi discutibile
Nel mondo intellettuale, l’originalità e l’irriverenza di Eisler per i confini disciplinari lo rese un outsider: aveva scritto un libro sulla moneta, si era convinto di aver trovato la chiave del Vangelo di Giovanni e la giusta interpretazione di passi scomparsi dei manoscritti di Giuseppe Flavio, aveva proposto un saggio sui sogni a Jung che conosceva e ammirava ricevendone un rifiuto, era un amico controverso di Benjamin e di Scholem, e aveva frequentato Alois Riegl, Hoffmanstahl, Warburg, Cassirer, Panofsky.
I suoi rapporti, complicati e ambivalenti, facevano di lui un tipo davvero strano. Si ricorda di Eisler, fra l’altro, che rubò un codice e, una volta arrestato tentò il suicidio, episodio che avrebbe voluto tenere nascosto, ma che diventò una sorta di pettegolezzo grazie al quale la sua carriera fu più volte danneggiata. La sua mente sfiorava la genialità, aveva una erudizione smisurata e perciò necessariamente imprecisa, una voracità intellettuale al limite dell’ossessione: tutto doveva tornare, ogni frammento era sottoposto a una sorta di sistematica arte della composizione.

Ma perché quel lupo del titolo? Perché l’idea che governa il libro rimanda l’origine della violenza predatrice e assassina non ai requisiti trascendentali della natura umana, ma agli esiti di un processo evolutivo, che avrebbe trasformato, per imitazione, gruppi pacifici di umani in «lupi». Di questo evento, la genealogia è rintracciabile nella dimensione archetipica della psiche: quella collettiva, che ha a che fare con i residui della mitologia e della storia dei riti, e quella individuale dei sogni e della psicopatologia.

Contro le tesi di Hobbes
La radice ultima del nostro sadismo starebbe nel radicamento della trasformazione da prede a predatori nell’inconscio collettivo. Così, le leggende intorno alla «caduta dell’uomo» possono essere «elevate al rango di autentica storia dell’umanità»: passaggio arduo di una scalata tanto vertiginosa quanto improbabile. L’accusa di lamarckismo alla teoria degli archetipi di Jung – la cui ricostruzione all’interno del suo pensiero è complessa e discussa, ma si allontana da questa posizione per ipotizzare piuttosto disposizioni ereditarie nella formazione delle immagini – troverebbe una giustificazione. Il masochismo, invece, sarebbe l’esito estremo di una desensibilizzazione degli organi di senso, e andrebbe perciò pensato all’interno di una fenomenologia della sensazione.

Le congetture di Eisler sono comunque affascinanti, passa dai lupercali alla licantropia, cita De Sade e poi si tuffa in un caso di cronaca contemporanea, alimenta le sue pagine di uno stupefacente collage di citazioni classiche. E, tuttavia, già dal titolo, le acrobazie magistrali di questo artista del pensiero non convincono. Quel che non regge è l’ipotesi che l’uomo si sia fatto feroce come il lupo, quando – in realtà – la dimensione decisiva della sua violenza, trascende e eccede la violenza del lupo.
Sebbene eccezionalmente, i mammiferi possono uccidere membri della loro stessa specie. I lupi no, sono esempi perfetti del contrario: la sottomissione ritualizzata dei loro gesti blocca l’aggressione. Proprio per questo, secondo Eibl-Eibesfeldt, la specie umana sarebbe soggetta a una «pseudospeciazione»: l’uomo è capace di trasformare la sua natura in «specie altra», biologicamente alterata e culturalmente costruita, e la differenza che così si crea tra gruppi umani aprirebbe la strada a una illimitata violenza, alla istituzione di capri espiatori collettivi e individuali della distruttività intraspecifica.

Secondo questa ipotesi, le tesi di Hobbes erano sbagliate: non homo homini lupus, ma il contrario. Negando la condizione umana dei propri simili per poterli eliminare in quanto avversari, gli uomini liberano una crudeltà che la natura dei lupi non rende loro possibile. Diventare lupi sarebbe quindi, in questa prospettiva, un notevole progresso.