«Nulla è più lontano dalle nostre intenzioni e più contrario allo spirito della nostra linea politica dell’interferire in alcun modo nelle legittime funzioni della stampa. Ma quando la sicurezza pubblica è in pericolo, rivendichiamo per l’esecutivo il diritto di intervenire…». Così scriveva, l’11 luglio 1907, John Morley, il segretario di stato britannico per l’India a Lord Minto, il viceré. Il tema qui evocato, quello della censura, così carico di echi contemporanei, è affrontato ora in una suggestiva chiave diacronica da Robert Darnton, grande storico del libro e della lettura, in un libro affascinante e per certi aspetti provocatorio: I censori all’opera Come gli stati hanno plasmato la letteratura (Adelphi, pp.366, euro  30,00). Darnton è stato uno degli esponenti più importanti del rinnovamento della storia culturale, pubblicando testi fondamentali sulla Francia dell’Illuminismo e della Rivoluzione. In questo libro, tuttavia, evade dal suo abituale ambito di ricerca, provando a comparare il sistema censorio in vigore nella Francia del Settecento con la censura britannica in India tra Otto e Novecento e con quella comunista nella Repubblica Democratica Tedesca.

Al vaglio le questioni stilistiche
La tesi del libro è tanto semplice quanto affascinante. Si può affrontare il tema della censura in due modi, scrive Darnton. Il primo, più diffuso, fa coincidere la censura con la semplice repressione del libero pensiero, delineando una lotta sempiterna tra bene e male, tra luce e tenebre. Vi è poi una posizione, non opposta ma diversa, cui Darnton aderisce, e che guarda invece alla censura come a un sistema culturale capace di riflettere l’ordine sociale, una sorta di specchio attraverso cui scrutare il funzionamento di intere sezioni della società.

Per rendere possibile questa prospettiva e ricostruire quelle cruciali mappe concettuali attraverso cui si fissa il confine tra cosa è pubblicabile e cosa no, Darnton propone di spostare l’attenzione dalle vittime della censura a coloro che la esercitano. Sicché alla domanda cruciale, in cosa consiste la censura? la risposta, di sapore etnografico, è: domandiamolo ai censori. Facendo tesoro della fondamentale lezione di Clifford Geertz e della tecnica della tick description, Darnton ci conduce in mondi altri, dove la censura non consiste solo in una contesa tra creatività e repressione, ma è invece uno strumento per catturare l’idioma locale, il tono di fondo di un sistema culturale, indagandone gli atteggiamenti taciti e i valori impliciti.

Il caso della censura borbonica è in questo senso esemplare. I libri, prima di essere pubblicati, venivano vagliati al fine di ottenere il privilegio regio. L’attenzione dei censori non era rivolta perlopiù, come potremmo immaginare, ad aspetti direttamente politici o ideologici, ma a questioni stilistiche. Per fregiarsi di un privilegio regio un volume doveva essere scritto comme il faut, e per questo capitava ai censori di annotare: «questo non è un libro. Finché non si arriva alla fine non si capisce l’intento dell’autore»; oppure di osservare che «nello sforzo di produrre frasi ben tornite, scade spesso nella stupidità e nel ridicolo». Molti testi, perciò venivano fatti pubblicare, ma solo con un tacito assenso, senza privilegio regio.
Nell’India britannica, per converso, la censura, in teoria, non esisteva. La libertà di stampa era un dogma liberale. E tuttavia c’era da parte del governo un’attenzione notevole nei confronti della letteratura vernacolare e dei modi della sua diffusione (dai colporteurs, alla lettura in strada, a forme di teatro improvvisato in piazza).

Solo agli inizi del XX secolo, con la diffusione del nazionalismo, questi testi – presi in considerazione in precedenza perlopiù in chiave di conoscenza etnografica condita da una buona dose di pregiudizi – cominciano a essere scrutati attentamente come possibili veicoli di sedizione. Venne coniato allora il concetto assai nebuloso di «disaffezione nei confronti del governo», con la possibilità di vietare la pubblicazione o di punire gli autori che la promuovevano.
Nel caso della censura della Ddr, poi, ci si trova di fronte a un complesso meccanismo che si confondeva con la produzione letteraria stessa. Oltre che atttraverso i censori veri e propri, un autore doveva passare per tutta una serie di filtri che andavano dal lavoro di editing delle case editrici (in teoria autonome di fatto espressione del sottobosco politico), al dialogo/scontro con le due burocrazie, quella statale e quella di partito, talora non coincidenti negli orientamenti. La censura, insomma, accompagnava la vita di un libro in tutta la sua storia editoriale.

Quel che Darnton mette in rilievo, nei tre casi esaminati, è soprattutto come la censura sia un complesso sistema di potere basato non sull’esercizio puro e semplice della proibizione ma sull’arte della negoziazione. Questa prospettiva, di derivazione foucaultiana, si appoggia su alcune evidenze. I letterati francesi si servivano di protettori per ammorbidire i censori; gli autori indiani ben conoscevano la legislazione liberale e la usavano per difendersi e mostrare la discrasia tra un liberalismo a parole e un imperialismo di fatto; gli scrittori della Ddr facevano balenare la minaccia di pubblicare a Ovest o di denunciare la persecuzione subita tentando di far leva sulle divisioni tra le varie fazioni dell’apparato censorio. In breve, esiste in tutti e tre i casi esaminati un criterio teorico di legittimità che apre spazi di contrattazione più o meno ampi e che coinvolge appieno gli stessi censori, gente che credeva in buona fede di svolgere una funzione socialmente importante. Darnton non nasconde affatto la sopraffazione censoria, e i drammi prodotti dalla violenza del suo incedere, ma l’accento è posto altrove, su quella zona grigia dove autori e censori si muovono insieme e dove il lecito sfuma gradualmente nell’illecito.

In assenza di pensiero
Rimane tuttavia aperto l’interrogativo sulla reale comparabilità dei sistemi messi a confronto. È lo stesso Darnton a osservare che sino al 1789 non si riteneva che l’individuo avesse un diritto naturale alla libertà di espressione. Inoltre, nell’antico regime europeo la censura statale era solo parte del controllo sulla espressione delle idee, larga parte del quale era rivendicato dalla Chiesa. Il libro di Helvétius, De l’esprit, del1758, scandaloso miscuglio di metafisica materialista e di etica utilitaristica, venne condannato non solo dalla censura regia e dal parlamento di Parigi ma anche dall’Assemblea generale del clero, dall’arcivescovo di Parigi, dai teologi della Sorbona e da un breve papale.

Il quadro disegnato da Darnton è per queste ragioni solo parte di un sistema assai più complesso. A ciò occorre poi aggiungere che in epoca contemporanea la censura è solo un aspetto delle tecniche di controllo, orientamento e condizionamento dell’opinione pubblica. Anche in questo caso il sistema censorio fa parte di un universo più vasto di manipolazioni e di propaganda, palese e occulta, che andrebbe tenuto in considerazione. Nella più potente e inquietante «favola» del XX secolo, 1984 di George Orwell, il protagonista, Winston Smith, è un censore di Oceania, dedito a correggere testi e a riscrivere la storia. Ma il tema proposto da Orwell è più vasto, riguarda l’ambizione totalitaria a controllare non solo ciò che la gente pubblica, ma quel che la gente pensa: «l’ortodossia consiste nel non pensare – nel non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è inconsapevolezza».