Mentre John Kerry volava ieri verso Roma, per un’altra serie di incontri sul Medio Oriente, ci si interrogava sull’effettiva portata dell’intesa raggiunta dal Segretario di Stato americano due giorni fa a Mosca con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Intesa che prevede una soluzione negoziata alla guerra civile siriana, attraverso l’avvio di una transizione politica e fondata sull’accordo del giugno 2012 raggiunto a Ginevra dal Gruppo di Azione sulla Siria. Il negoziato tra governo ed opposizioni dovrebbe avere il suo punto di partenza alla “Conferenza” che Kerry e Lavrov intenderebbero organizzare al più presto, se possibile già a fine maggio. Lo scetticismo domina. Appena qualche giorno fa l’Amministrazione Obama faceva capire di essere pronta a rifornire di armi pesanti e sofisticate i ribelli anti-Assad. Invece martedì a Mosca Kerry è apparso ben disposto nei confronti di una possibile soluzione politica della guerra che ha già fatto oltre 70mila morti.

«La stabilità del regime siriano, che di recente è apparso in grado di recuperare terreno sul campo di battaglia, e il timore che le formazioni islamiste radicali prendano il sopravvento sull’opposizione laica, hanno convinto Washington a cambiare, almeno per il momento, la rotta», spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani. «E’ stato inevitabile tornare a un anno fa, alla road map fissata a Ginevra (dal Gruppo di Azione sulla Siria) perchè è evidente che dal campo di battaglia nessuno emergerà vincitore» aggiunge Rabbani. «Tuttavia – avverte l’analista – siamo solo all’inizio di un processo molto delicato. Mosca e Washington dovranno impegnarsi a persuadere non solo il regime e i ribelli ad accettare l’idea di una transizione politica ma dovranno impedire che gli alleati delle due parti, ad esempio il Qatar sponsor dell’opposizione e l’Iran schierato con Bashar Assad, a non boicottare la road map». Nessuno dovrà porre precondizioni, dice l’analista: «i ribelli non potranno pretendere l’uscita di scena del presidente siriano per sedersi al tavolo delle trattative, Assad non potrà chiedere che al termine della transizione sarà ancora lui a capo della Siria».

Kerry, sempre ammesso che faccia sul serio, dovrà tenere a bada il Qatar che ha già fatto fallire i tentativi delle componenti più realiste dell’opposizione di aprire un dialogo con il regime, fino a spingere (o a costringere) alle dimissioni il capo della Coalizione Nazionale (CN), Mouaz al Khatib, che ad inizio 2013 si era detto pronto a trattare con il regime ma non con Assad. Da parte sua Lavrov due giorni fa ha pronunciato una frase che, con ogni probabilità, ha fatto scattare l’allarme nell’ufficio della presidenza siriana. Mosca, ha detto il ministro degli esteri, «è interessata non a salvaguardare il destino (politico) di determinate persone ma gli interessi del popolo siriano». In poche parole: la transizione avrà inizio con Assad al potere ma non potrà concludersi con Assad ancora al comando.

Un anno fa a Ginevra l’ex inviato speciale dell’Onu Kofi Annan ottenne l’appoggio del Gruppo d’Azione sulla Siria ((Russia, Usa, Cina, Francia e Gran Bretagna, più i ministri degli esteri di Iraq, Qatar, Kuwait, Turchia, i segretari generali dell’Onu e della Lega araba e l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue) – ad un piano che prevedeva «un processo politico che porti ad una transizione che soddisfi le legittime aspirazioni del popolo siriano» e la creazione di un organo esecutivo di transizione che potrà «includere membri dell’attuale governo, dell’opposizione e di altri gruppi» e dovrà essere «formato sulla base di un mutuo consenso». Piano che per l’allora Segretario di stato Hillary Clinton preparava chiaramente «la strada all’era post Assad» ma che in realtà lasciava nella nebbia il ruolo e il destino politico del presidente siriano. A distanza di un anno gli Stati Uniti hanno (forse) compreso che Bashar Assad gode, per ragioni complesse, legate anche alla composizione etnica e religiosa del Paese, dell’appoggio di milioni di siriani, visto che riesce a governare e a far rispettare i suoi ordini alle Forze Armate.

Considerata anche la situazione sul terreno più favorevole da qualche settimana ai governativi – l’Esercito ieri ha riconquistato una città strategica a 20 km dal confine con la Giordania mettendo in fuga un migliaio di ribelli -, è fin troppo chiaro che l’opposizione non ha la forza politica e militare per condizionare la sua partecipazione al negoziato all’uscita di scena immediata di Assad. Non soprende perciò che varie componenti dell’opposizione abbiano denunciato ieri come un fallimento, se non addirittura un «tradimento», l’accordo di principio raggiunto da Kerry e Lavrov che non esclude il presidente siriano dalla trattativa e gli esponenti del regime dal governo di transizione che dovrebbe essere formato dopo la Conferenza di fine maggio. Governo, peraltro, che spazzerebbe via quello ad interim che la Coalizione Nazionale aveva deciso di formare al summit di Istanbul di fine marzo per «amministrare le zone liberate» nel nord-est della Siria, sotto la guida di Ghassan Hitto (un siriano-americano controllato dai Fratelli Musulmani e dal Qatar). «Vogliamo la garanzia che gli Usa non cambieranno la loro posizione e che non rinunceranno a chiedere l’esclusione di Assad», ha protestato Ahmed Ramadan della CN. L’opposizione però è chiamata a fare i conti con la realtà.