Stavolta hanno esagerato lassù alle Faroe, con la grindadráp: l’annuale, settembrina mattanza di cetacei nell’arcipelago autonomo ma appartenente alla Danimarca. Venivano uccisi in media 600 balene e 35-40 delfini. Ma il 2021 ha segnato un macabro primato: circa 1500 delfini massacrati dopo ore di agonia nelle acque basse della spiaggia di Skálabotnur, isola di Eysturoy. Mai così tanti individui di quella specie uccisi in un giorno a memoria recente, ha denunciato fra il movimento Sea Shepherd; nel lontano 1940, sempre alle Faroe, si sfiorò un numero simile, con 1200 uccisioni.

LA GRINDADRAP è una vichinga tradizione millenaria. Sembrava intoccabile ma davanti alle immagini di lunghe file di delfini martoriati sulla battigia, il primo ministro delle isole si è impegnato a una revisione normativa: oltre al numero degli animali uccisi, è stata la specie a contare. La caccia ai delfini, dice il primo ministro, «non fa parte della nostra tradizione quanto quella delle balene».

LE CARNEFICINE DI ANIMALI sono la «vita» quotidiana nel mondo. Macelli – tecnologici o improvvisati – come sbocco ovvio degli animali allevati a miliardi in spazi angusti. Navi peschereccio magari a strascico per prelevare milioni di miliardi di pesci boccheggianti; idem nell’acquacoltura. Bracconaggio, dalle valli italiane alle foreste esotiche. Caccia. Incendi, mortiferi per la repubblica vegetale ma anche per il regno animale. Traffico lucroso di fauna selvatica, illuminato a giorno solo dalle recenti vicende pandemiche. Avvelenamenti e disinfestazioni. E abbattimenti sanitari a gogò a ogni epidemia animale o umana: 15-17 milioni di visoni abbattuti sbrigativamente nel 2020 nella sola Danimarca che era il principale esportatore mondiale, oltre che di carne suina, di pellicce di mustelidi.

TUTTO IL MONDO E’ PAESE quanto a efferatezza, nei modi e nei numeri. Ogni anno fino a 7 milioni di squali vengono uccisi barbaramente dalla pratica del finning: tagliate le pinne (una leccornia in certi paesi d’Oriente), non ci si preoccupa della successiva agonia degli esseri mutilati. Tuttora sono uccisi elefanti a migliaia per l’avorio, pur vietato in tanti paesi, con la morte collaterale dei cuccioli rimasti orfani. Ogni anno nel bacino del Mediterraneo 25 milioni di uccelli dopo migrazioni spossanti trovano all’arrivo piombo, reti e altre trappole. Spesso i massacri sono il cruento sottoprodotto della distruzione degli ecosistemi per interessi economici: ogni anno migliaia di oranghi muoiono con i loro piccoli a causa delle piantagioni di palma da olio.

DAVANTI A QUESTA ORDINARIA CRUDELTA’ in tutto il mondo, l’indignazione per la strage di delfini in Scandinavia è un po’ ipocrita e un po’ cieca. Del resto Lev Tolstoi affermava, forse a torto e forse a ragione: «Se i mattatoi avessero pareti di vetro, tutti diventerebbero vegetariani». E tuttavia…

QUANDO SI EVOCA LA TRADIZIONE si entra in un altro campo: si uccide secondo rituali ancestrali, in giornate stabilite, spesso con armi del passato e – soprattutto – alla luce del sole. Questioni antropologiche, la storia quotidiana, la «cultura», l’«identità», perfino la religione sono al centro di queste pratiche, più dell’aspetto economico, ormai marginale in diversi casi. La grindadráp per secoli ha assicurato cibo a tutti gli abitanti in un ambiente ingrato. Ecco perché è ancora così sentita e tutelata dagli autoctoni. Il bisogno materiale non c’è più.

SPECIE TABU. SETTEMBRE rosso sangue: in Cina non è ancora stato archiviato il Festival della carne di cane di Yulin; da sempre al centro di una speciale riprovazione mondiale non solo per le sevizie, i metodi di uccisione e il rischio sanitario ma – forse soprattutto – perché le vittime sono animali da compagnia. Molti enti locali cinesi hanno messo al bando questo consumo.

NON SOLO FAROE, LA’ NEI MARI. Per affinità di specie voliamo in Giappone. Nella «baia della morte» di Taiji, prefettura di Wakayama, il mare si tinge di rosso, ancora una volta nel mese di settembre: per la caccia ai delfini odontoceti. Trascinati a terra e massacrati con arma a taglio. Sempre nell’Impero del Sol Levante, tradizione da onorare è la caccia alle balene. Sempre più in crisi, comunque, da oltre due decenni: a Tokyo si consumano ormai pochi grammi pro capite all’anno di carni del grande mammifero marino e i politici nipponici, pur difendendo la caccia in nome della sovranità e di antiche tradizioni di pesca (oltre che in memoria della fame post-bellica), sono sempre meno intenzionati, viste le pressioni internazionali, a sussidiare il settore. E’ vicino il canto del cigno?

E TORNIAMO A OVEST. CANADA, la famigerata caccia alla foca, scesa comunque dalle oltre 300.000 uccisioni annue a poche centinaia nel 2020, certo grazie anche a Covid. L’Ue ha vietato da decenni l’importazione delle bianche pellicce dei cuccioli, a lungo randellati a morte con una testa di ferro e un uncino alle estremità). Il mercato è spento. E sono ben 36 i divieti al mondo riguardanti i prodotti derivati dalle foche.

L’ITALIA E’ SEMPRE COINVOLTA. «Mattanza»: il termine, dallo spagnolo matanza (uccisione), letteralmente si riferiva alla fase finale e truce della pesca del tonno, una tradizione in Sicilia, e tuttora ritenuta da politici locali non solo un’attività produttiva ma «parte dell’identità di Favignana e delle isole Egadi». Anche la caccia al tonno a Isola Piana in Sardegna è un rito millenario che ormai ruota sempre più attorno alle leggi di mercato: la moda sushi impera.

E SE DAL MARE ARRIVIAMO sulla terraferma o saliamo in cielo, c’è molta «tradizione» anche nella piaga nostranissima del bracconaggio. Spiega il dossier Wwf Furto di natura: «Le forme più diffuse sono radicate nel territorio e nel contesto culturale, troppo spesso tollerate o protette da un diffuso atteggiamento di compiacenza e omertà». Esempi? L’inferno delle valli bresciane, dove minuscoli pennuti, torturati con trappole e lacci, finiscono nella polenta e osei (avviene anche in Veneto e Sardegna). Un retaggio incongruo di epoche affamate. Nella Maremma toscana e laziale sono gli istrici a finire nei piatti. In Aspromonte, i ghiri. In Puglia, la cattura di uccellini nota come jacca sembra risalire a 3000 anni fa, ai tempi dei Messapi. Nella campagna romana le allodole sono le vittime preferite dei passerari. C’è da sperare nel mancato passaggio di testimone dai padri ai figli.

LE MACELLAZIONI RITUALI-RELIGIOSE sono, dal canto loro, una realtà spinosa. Continuano le contestazioni del Gadhimai Festival («il festival più sanguinario del mondo») che si svolge ogni cinque anni nel Sud del Nepal. Due giorni dedicati alla dea indù della potenza si risolvono nel massacro di decine di migliaia di bovini (bufali, le vacche sono sacre) e altri animali, in omaggio a un rituale religioso dettato in sogno a un tal bramino 250 anni fa. Nel 2009 furono uccisi 500.000 animali. Poi si sono pronunciati contro la strage la Corte suprema del Nepal, ministri, la Corte suprema indiana e la gestione del tempio. Ma nel 2019 è avvenuta, con numeri inferiori, la mattanza di bufali, capre, topi, polli e maiali.

E LA FESTA DEL SACRIFICIO (Eid al-Adha) celebrata dal mondo islamico in omaggio al profeta Abramo? Agnelli e montoni sgozzati a milioni nel mondo, a partire dalla Mecca. Quanto della carne frutto del sacrificio a Gadhimai o ad Allah è destinato a un consumo alimentare che sarebbe comunque avvenuto, e quanta invece si spreca? E, quanto ai cristiani, che dire della strage degli agnelli a Pasqua? Alla fine, tutto il rapporto con gli animali è una cruenta tradizione, rituale o «ordinaria» che sia. E superabile, nel quadro di una (necessaria) riconversione economica e culturale.