L’esperienza dell’esilio, cui il regime nazista costrinse quasi tutta l’intellighenzia tedesca, è un universo molto composito, che non si finisce mai di indagare. L’esilio muta fisionamia a seconda della personalità di chi lo subisce e del paese nel quale viene vissuto. L’esilio infligge ferite più o meno profonde, comunque rimarginabili per chi lo considera una sia pure dolorosa parentesi. Le ferite restano invece aperte a vita per l’esule che torna in Germania e vi si sente tanto estraneo quanto lo era stato in America. È il caso di Hans Sahl, poeta che in omaggio all’assimilazione perseguita dall’alta borghesia ebrea volle tedeschizzare il suo nome Salomon in Sahl. Di lui un benemerito volume di Del Vecchio ci presenta ora, in traduzione italiana col testo a fronte, quasi tutta la produzione poetica: Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo (pp. 504, euro 17,50). Curatrice e traduttrice è Nadia Centorbi, giovane e valente germanista, che ha voluto assumersi la coraggiosa fatica di mantenere nella traduzione italiana la rima – e spesso anche il metro – dell’originale tedesco. Tranne qualche inevitabile svista, l’impresa è riuscita grazie alla sensibilità della traduttrice e alla sua familiarità con il lascito di Sahl custodito presso l’archivio di Marbach.

Quale ritratto emerge complessivamente del poeta Hans Sahl? Anzitutto la densa introduzione di Nadia Centorbi («Hans Sahl poeta dell’esilio») ci informa che il nostro fu anche pubblicista, narratore, drammaturgo e traduttore. Uomo dal multiforme ingegno, dunque, che esordisce come poeta in America nel 1942 con il volume Die hellen Nächte. Gedichte aus Frankreich (Le chiare notti. Poesie dalla Francia). Il titolo ha poco a che fare con rievocazioni romantiche, sottolinea invece il carattere innaturale della guerra. Il chiaro di luna, che rallegra le notti degli umani, in tempi di guerra diventa invece motivo di dolore, perché rende visibili le città da bombardare.

Sahl è un uomo che fugge (1933) volontariamente dalla Germania come oppositore politico prima ancora che come ebreo. Laureato in storia dell’arte, la sua attività di pubblicista presso testate progressiste come la «Weltbühne» o «Das Tage-Buch» si inscrive nell’orizzonte ideologico di una sinistra simpatizzante col partito comunista. L’avvento di Hitler al potere segna la fine dell’età della sicurezza e l’inizio di un’odissea improntata alla massima precarietà, a vera e propria indigenza: da Praga a Zurigo, da Parigi alla Norvegia, da qui nuovamente in Francia fino a Marsiglia e al sospirato approdo negli Stati Uniti (1941).

Ma la Francia non vuol dire per Sahl solo l’amata Parigi, bensì l’internamento in due campi di prigionia (in uno insieme con Walter Benjamin) e l’inizio del doppio esilio: dal nazismo della Germania hitleriana e dal comunismo della Russia staliniana: «Il sogno di una società senza classi, che animò il pensiero e l’azione di noi giovani, si tramutò in incubo non appena la realtà del comunismo entrò in disaccordo con la sua idea». Al trauma della delusione si aggiunge il marchio di rinnegato che, come accadrà a Ignazio Silone, gli viene impresso dai compagni di lotta. La poesia nasce tra le ristrettezze materiali e morali del campo di prigionia: «Scrissi le mie prime poesie su un quadernetto che un soldato aveva introdotto di contrabbando, chiedendo in cambio o dieci Gauloises o due chiodi o una matita».

La lirica di Sahl nasce perciò naturaliter con le stimmate della provvisorietà, testimonianza immediata di un profugo che non ha né il tempo né il modo di dare alle sue espressioni la necessaria eleganza, le dovute rifiniture: «Per lavorar di lima tempo non gli fu dato, / il più che qui sta scritto non vuole aver pretesa, / in scomparti di treno fu elaborato, / oceani solcando e in sale d’attesa» (Al lettore). La preoccupazione principale del poeta, quello che gli fa vincere ogni esitazione, è l’obbligo di testimoniare: le tribolazioni e umiliazioni di un’esistenza coatta, ma anche la volontà di non cedere, di sopravvivere almeno nella memoria di chi lo leggerà. Si ha il dovere di testimoniare anche l’apocalisse: «Non distogliere lo sguardo, / resta desto nell’orrore / un giorno sarai interpellato / e tu dirai ciò che hai visto» (Apocalisse).

Dovere che porta Sahl, consapevole di essere uno degli ultimi testimoni (Noi siamo gli ultimi si intitola l’antologia del 1976), a polemizzare sarcasticamente con Adorno. Il quale volle saggiamente affermare l’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Non pare, commenta Sahl, che quell’uomo saggio abbia avuto alta considerazione della poesia: «Noi crediamo che le poesie / siano ridiventate possibili / ora più che mai, per la semplice ragione che / solo in poesia si può esprimere / ciò che altrimenti / sfuggirebbe a qualsiasi descrizione» (Memorandum). Non meno aspro, anche se divertente, il contrasto con Brecht. Sahl lo incontra (1944) a New York: forte diverbio tra i due, nel quale il grande poeta marxista dichiara di non tollerare che Sahl parli male dell’uomo del Cremlino (Stalin) e che comunque non si può essere contro i poveri. Quindi lascia la stanza in segno di protesta. Sahl commenta che proprio il suo amore per i poveri non sopporta che essi siano perseguitati o tormentati dall’uomo del Cremlino e conclude: «nello scrivere la verità, signor Brecht, / la difficoltà consiste proprio / nel non celarla» (Difficoltà nel rapporto col poeta Bertolt Brecht).

C’è una lunga lirica (Scrivere poesie – ovvero quel che ancora ne è rimasto) nella quale Sahl enuncia la sua poetica originaria e la palinodia cui l’ha sottoposta. Prima l’impiego di alti concetti, il lavoro di lima, la conta dei versi, la ricerca del ritmo e della rima. Ora il lasciarsi andare alle occasioni del momento, la rinuncia al mot juste e al lavoro minuzioso sull’io. Vengono sommariamente messi in rassegna e commentati i poeti del passato (Keats, Yeats, Baudelaire, Mallarmé), finché non arriviamo a Brecht, con un’arguta definizione della sua lirica: «Brecht? L’ultimo tentativo / di una sintesi tra Hölderlin, Lutero, Lenin».

La chiusa rappresenta il manifesto della lirica contemporanea (siamo nel 1970) e di quella sahliana in particolare: «La lirica nella nostra epoca / può essere solo effimera. / Comunicazione con la condizionale. / Io faccio di me stesso una poesia. / Io sono un evento, / Ho luogo in me. / Io accado». Che è poi il merito principale che giustamente Hans Sahl attribuisce alla propria figura: «Io sono un memoriale vivente, / una mostra ambulante della memoria» (La ballata delle cose indossate).