Bernadette è un’architetta, o meglio lo è stata, adesso vive insieme al marito, pezzo grosso della Microsoft (Billy Crudup) e all’adorata figlia Bee (Emma Nelson) in una casa enorme, che ricorda quella della famiglia Addams, trasandata, con la pioggia che cade in ogni stanza dal tetto e il giardino pronto a franare. Sintomo di depressione dirà più avanti la psicanalista/psichiatra, o magari reazione estrema a quel suo «inventare» abitazioni che lei aveva fatto con passione e creatività e aveva abbandonato dopo un trauma dolorosissimo.

SARÀ questo che l’ha resa una persona spigolosa, fin troppo ruvida, a cui non piace nulla? Bernadette detesta la gente, il vicinato, le madri della scuola di sua figlia, la città in cui abita, Seattle, i riti sociali, le feste, le vacanze, viaggiare, persino uscire di casa – tanto che si affida per tutto a un’ assistente virtuale, una certa Margiula, alla quale commissiona l’acquisto (on line) della spesa, di assurdi vestiti come degli antidepressivi.
La ragazzina è l’unica persona con cui ha una relazione, sono madre e figlia e migliori amiche, complici e affiatate così quando per il passaggio al college – e gli ottimi voti – Bee chiede ai genitori un viaggio premio in Antartide la madre accetta. Ovviamente pensando a vie di fuga. Il fatto è che Bernadette come capita a tanti – e per le ragioni più imprevedibili – a un certo punto ha messo da parte i suoi desideri, geniale creatrice visionaria è fuggita da Los Angeles quando la sua casa, un capolavoro premiato e acclamato è stata comprata da un rozzo miliardario – star dei quiz in tv – che l’ha abbattuta per farne il proprio parcheggio. E dopo? La vita familiare, il lavoro del marito, la cura della figlia nata a rischio, è lì che ha messo tutte le sue «16 visioni», quelle che lui le aveva augurato come alla Bernadette dei miracoli «dimenticando» la propria energia creativa, che priva di una direzione, di uno scopo, di un terreno di lotta con le cose si è trasformata in negatività.

PERCIÒ: cosa fare? Sparire, cercare in un luogo remoto una nuova partenza ma più ancora dentro di sé, nelle parole mai dette, nei silenzi, nelle sue fughe dietro agli occhialoni neri senza i quali non riesce a affrontare il mondo.
Il nuovo film di Richard Linklater, tratto dal libro di Marie Sample che sembra il regista abbia tradito con un «lieto fine» familiare – persino forzato – è un po’ diverso dai suoi, da quelle «saghe» meravigliose tra i sentimenti e gli anni durante i quali i personaggi – e gli attori con loro – cambiano nelle attitudini e nel corpo che partecipa anch’esso a quel passare del tempo in cui il regista tesse le sue storie. Qui il tempo è già passato, i protagonisti, a cominciare dalla Bernadette di Cate Blanchett (una nomination ai Golden Globe), figura assoluta, sempre presente anche quando è fuori campo, lo hanno già macinato, ne sono stati travolti, da qualche parte vi sono rimasti impigliati e i segni li portano nell’invisibilità.

E sono segni che ognuno di noi può riconoscere, che raccontano scelte, inquietudini, momenti di confusione, paure: le troppe parole non dette, o eluse, insieme alle abitudini. Non si tratta del gesto «eclatante» ma di un’erosione quotidiana, un lento adagiarsi in quel tempo che sembra accarezzi e invece può essere inesorabile, quasi una trappola con l’aspetto di una comoda cuccia. Per questo Che fine ha fatto Bernadette? nonostante quel « lieto fine» – (ma lo è davvero poi? E se fosse solo un altro tempo, un altro sogno, una fantasia, l’aspettativa di un possibile cambiamento? ) è un film pieno di malinconia; che è diversa dalla nostalgia per l’infanzia o per i propri vent’anni in Boyhood o nella trilogia di Prima dell’alba. Stavolta è un sentimento più doloroso, e inafferrabile, che sfugge, si maschera laddove svaniscono piano gli slanci perdendo la capacità di guardare chi ci sta accanto, e di uscire un po’ dalle ossessioni. Sta qui la forza dell’arte, reinvenzione della realtà – e scommessa continua con la vita? Linklater sembra dirci di sì, narrandoci con dolcezza – e un po’ mirando la cuore – la vita.