Se storia e memoria non sono sovrapponibili nello iato che separa oggettività da soggettività, l’ultimo libro di Amin Maalouf, Una poltrona sulla Senna Quattro secoli di storia di Francia (traduzione di Anna Maria Lorusso, La nave di Teseo, pp. 358, € 21,00), pur muovendo da un’esperienza personale si colloca sul primo dei due versanti in quanto racconta, attraverso una serie di personalità assise nel tempo sul ventinovesimo scranno degli Immortali, la massima istituzione culturale francese nata sotto l’egida ovvero la ferrea tutela del cardinale Richelieu nel 1634: ovviamente la Académie Française. Si tratta di un libro d’autore, scritto in soggettiva nello stile della clarté, e tuttavia esso si fonda su una bibliografia accurata, consultabile in appendice, che innerva una sequenza di ritratti i quali puntualizzano via via la storia culturale francese, e di riflesso europea, degli ultimi quattro secoli. Che a firmarla sia Amin Maalouf è per così dire una garanzia, trattandosi di un autore insospettabile di nazionalismo gallicano e invece rubricabile nella quota di un nativo e magnanimo multiculturalismo: nato a Beirut nel 1949, di famiglia cristiano-maronita e di formazione socioeconomica, esule in Francia dal ’76 dopo i torbidi della guerra civile libanese, già redattore di un periodico di grande prestigio quale «Jeune Afrique», egli è autore di romanzi (Col fucile del console d’Inghilterra, Premio Goncourt 1993, o i più recenti Gli scali del Levante, Il profilo di Baldassarre, tutti editi in Italia da Bompiani) ed è il firmatario di partiture saggistiche i cui titoli sono eloquenti (Le crociate viste dagli arabi, libro iniziatico del 1983, Identità omicide, ’98) e nel frattempo fortemente indiziati nel contrastare sia il cosiddetto orientalismo di ritorno, come lo definì il grande Edward Said, sia il mainstream che vede oggi in corso nient’altro che un conflitto di civiltà tra islamismo e giudaismo/cristianesimo o quello che, in altri termini, i più filistei e i più ipocriti fra gli editorialisti definiscono convenzionalmente un reiterato ed unilaterale attacco al nostro «stile di vita».
Maalouf in retrospettiva guarda a chi si sia seduto sullo scranno che, dopo la scomparsa di Claude Lévi-Strauss avvenuta nel 2009, ora occupa lui. Maalouf ricostruisce volta a volta il profilo biografico e intellettuale dei precedenti Immortali ma non nasconde le proprie preferenze. Se è casuale la trafila di quanti lo hanno lì anticipato, è invece ragionata e debitamente motivata la lista di preferenze che si scoprono talora come sorprendenti affinità elettive. Il solo punto fermo di Maalouf è la critica della «identità» intesa come guscio accecato, catafratto o difensivo, e la sua predilezione va naturalmente alle figure nomadi e inclassificabili oppure spiazzanti rispetto al quadro della cultura convenuta. È l’unico modo, per lui, di convogliare la propria memoria personale di profugo e di esule sull’asse della storia di tutti senza adulterarne né il decorso né il senso e, anzi, ricavandone un destino. Non per caso le prime due figure aggettanti sono rinvenute in Joseph Michaud (la cui pionieristica e monumentale Storia delle Crociate fu sul serio un livre de chevet per l’adolescente Maalouf) e in François de Callières, postumo di pochi anni a Re Sole, il cui trattato De la manière de negocier, piccola bibbia di un dissimulato antibellicismo, viene riproposto nella sua paradossale attualità al tempo delle guerre neocoloniali che si arrogano viceversa il titolo di umanitarie.
Ma due sono gli antecedenti che Maalouf sente davvero essenziali e, pur riconoscendone la statura imparagonabile, percepisce come consanguinei. L’uno è Ernest Renan, l’autore di una scandalosa e un tempo celeberrima Vita di Gesù (1863), l’apostolo di un umanesimo che è sfida perpetua a qualunque nazionalismo («La divisione troppo abusata della umanità in razze, oltre a poggiare su un errore scientifico (…) non può che portare a guerre di sterminio»: questa fu solo una delle sue inascoltate profezie); l’altro è il diretto suo predecessore sotto la Cupola, Claude Lévi-Strauss, che illustrò il ventinovesimo scranno trasferendovi il peso di un universo fino ad allora incognito, il mondo della totale alterità e cioè il mondo della vita apparentemente cruda e senza alfabeto, un mondo che la presunzione accademica aveva a lungo ritenuto spento, abietto, arretrato o indegno di qualunque interesse che non fosse dettato sottotraccia dalla volontà di dominio e di predazione. Così, nelle parole dello stesso Maalouf: «La missione dell’antropologo non è studiare le società selvagge, primitive o esotiche, bensì studiare l’uomo nella sua diversità, certo, ma anche e soprattutto nella sua unità profonda che va al di là di tutte le differenze: perché c’è nell’Altro qualcosa di noi e in noi qualcosa dell’Altro ed è importante che ne prendiamo coscienza per conoscerci meglio».
Il francese di Maalouf è limpido, netto, essenziale (anche ben tradotto, e qui sia detto per inciso, da Anna Maria Lorusso), ma il suo sguardo e le sue idee non hanno nulla a che vedere con il redivivo sentimento «repubblicano» che oggi pervade a Parigi come altrove le destre politiche e non soltanto le destre. Semmai la sua è una posizione classicamente universalistica e però pervasa dalla consapevolezza dei limiti storici accusati dalle vicende di questo universalismo medesimo. Perciò Maalouf ha definito nel suo titolo forse più famoso meurtrières, vale a dire «omicide» almeno potenzialmente, tutte quante le identità e dunque le rigide distinzioni fra il qui e l’altrove, tra «noi» e «loro». Egli le ritiene infatti vanità belligeranti o più che altro dei dispositivi linguistici e concettuali capaci di trasformare, e dunque di adulterare, dei semplici aggettivi (per esempio «cattolico», «musulmano», «ebreo» così come «arabo» o «francese») in micidiali sostantivi, disarmanti per chi osi dubitare e nel frattempo istigatori per chi intenda viceversa farsene arma di predominio e di offesa. L’universalismo di Maalouf, e la sua stessa peripezia biografica lo testimonia, è l’umanesimo capiente di Terenzio Afro, beninteso un credo liberato dalla boria di chi tante volte lo bestemmiò e dall’usura secolare dei vincitori per essere riproposto nella sua elementare verità. Homo sum…, cioè sono un uomo e penso che tutto ciò che è umano non mi sia estraneo, laddove «estraneo» è il termine frigido il quale annuncia di questi tempi la metafisica in armi che dà la caccia allo «straniero», a ogni straniero o a ogni persona che tale, per semplice pregiudizio, venga considerata.
Se Edward Said volle intitolare la propria autobiografia con un provocatorio Out of place (sembra gli dicessero spesso, a Harvard: «Ma che cosa sei? Said è un cognome arabo! A vederti non sembri americano! Come mai se sei nato a Gerusalemme vivi qui?… Va bene, sei arabo, ma di che tipo? Un arabo anglicano?»), chiesero invece una volta, e con un certo sussiego, a Salman Rushdie se si sentisse dopo tutto un inglese indiano ovvero un indiano inglese e pare che colui abbia risposto di sentirsi semplicemente un individuo abituato a stare fin da piccolo con il sedere tra due sedie. È altrettanto probabile che l’ex profugo libanese Amin Maalouf, oggi celebrato accademico di Francia, sottoscriverebbe tale affermazione dal suo ventinovesimo scranno.