Sbirciando il meteo sull’Iphone a Rotterdam questi giorni c’è un po’ di sole, nulla a che vedere con la primavera nostrana – e poi nel week end appare anche il simbolo della neve. Ma il festival che di solito occupa l’intera città per una decina di giorni si sta svolgendo online, visioni, incontri, Q&A assorbono la giornata, l’effetto è di vivere in una «bolla parallela» in cui si produce uno strano clash con la quotidianetà – la scelta era obbligata, in Olanda c’è ora un lockdown severo senza dimenticare le restrizioni di viaggio che prevedono la quarantena per chi entra nel Paese.

ECCOCI dunque all’ IFFR – International Film Festival Rotterdam – atto primo, il secondo è previsto a giugno in presenza – se tutto va bene, 2-6 – coi tre concorsi, il Tiger Award, Big Screen, Ammodo – quest’ultimo per cortometraggi – più una sezione, Limelight, per le anteprime di film in uscita su territorio olandese tra cui l’apertura, Riders of Justice, e alcuni titoli «veneziani» – Cari compagni di Konchalovsky, Mandibules di Quentin Dupieux, Quo Vadis Aida? di Jasmila Zbanic (solo per distributori e Industry). Che edizione è dunque questa tanto diversa dal solito nella sua stuttura immateriale mentre il lavoro e la dimensione festivalieri sono all’opposto per definizione, un luogo di confronto tra idee e progetti? E che coincide con l’anniversario dei cinquant’anni, il 1971 quando l’IFFR è nato – i racconti di chi lo frequentava allora parlano di un festival «acquatico», che viveva sui battelli, e di una comunità, il cinema indipendente e underground, secondo le idee del fondatore Hubert Baals, frequentata da cinefili e critici che arpeggiavano i loro fraseggi sulla carta stampata e programmi di cineclub prendendo spunto qui.
Il primo tratto comune a film e sezioni è la centralità dei personaggi femminili: donne giovani, giovanissime, meno giovani, spesso con la regia di cineaste, in cui prendono corpo storie, situazioni, ambienti e classi sociali diversi ma anch’essi attraversati da un tema ricorrente: l’infelicità. L’aria dei tempi? L’obbligo del 50&50? Può darsi, anzi senz’altro sono fattori di peso, però l’effetto è abbastanza inatteso. Che molti di questi personaggi siano infelici è comprensibile visto il contesto in cui si muovono, ciò che sfugge invece è perché la loro esistenza a cominciare dai goffi tentativi di «ribellione» passa sempre per dei codici analoghi a quelli che si vogliono – si vorrebbero? – destituire.

Così Ainhoa Rodriguez nel suo film d’ esordio Destello Bravìo (concorso) ci porta in un villaggio sperduto e spopolato della Spagna dove sono rimasti pochissimi abitanti soffocati da una claustrofobica frustrazione. Le donne soprattutto a fronte di mariti noiosi o di sguaiati maschi aggressivi, reprimono il proprio desiderio o gli danno voce con la stessa violenza che sentono di subire.
Isa registra su delle cassette audio i suoi pensieri, Cita è fuggita di casa lasciando il marito, le altre spettegolano, mormorano, le case sono come chiese troppo cariche e senz’aria: ciascuna di queste figure annaspa in una rivolta di sussurri e grida notturne ancestrali. Rodriguez però ne esaspera ancor più la sgradevolezza della repressione nei corpi mai filmati con amore, a contrasto con la bellezza dei paesaggi, e nel frontale del punto di vista di un grottesco che li inchioda. Un po’ streghe e un po’ folli: è questo il femminile possibile?

NEL FILM thailandese (coproduzione svizzera) The Edge of Daybreak le donne sono fantasmi, perdute nel bianco e nero di apparizioni che il giovane regista, Taiki Sakpisit, porta co sé da altre visioni, provando a dare voce al passato della Thailandia – gli anni Settanta e la repressione del movimento studentesco, il colpo di stato militare del 2006 – dentro alle vicende di una famiglia disfunzionale, sospesa tra incubi e segreti mai affrontati, violenza e controllo.
Seguendo Gritt scopriamo invece che anche nell’avanzato nord Europa (siamo in Norvegia) le donne specie se hanno idee poco conformiste vengono messe da parte, e quando come la protagonista non hanno un diploma le chance di lavorare nell’arte si azzerano. Lei per questo si vede rifiutare il finanziamento pubblico al suo progetto, una performance urbana ispirata al Living Theatre, che denuncia in Norvegia e più in generale in Europa razzismo, arroganza, ipocrisia di un politicamente corretto senza adesione alla realtà. Quella di Gritt, debutto della regista Itonje Soimer Guttormsen, è una storia di depressione e rabbia, il personaggio si autodistrugge nei vari ambienti artistici (tutti piuttosto odiosi in effetti) che frequenta trovando pace in una sorta di wilderness domestica. Ma: si può dare voce critica alla contemporaneità senza spingere i personaggi sempre al limite?

 

ALL’OPPOSTO lavora  Landscape of Resistence di Marta Popivoda; anche qui la protagonista è una donna, Sonja, partigiana jugoslava che ha combattuto i nazisti, è stata deportata a Auschwitz, sul braccio ha ancora il numero 82298, e lì ha organizzato una resistenza interna fuggendo insieme a alcuni compagni e compagne. Ha 97 anni incisi sul corpo curvo, la memoria è ferma come lo guardo degli occhi celesti, attenta ai dettagli – anche i pettinini che fermano i capelli bianchi. Tra la regista, la coautrice, Ana Vujanovic e Sonja c’è’ una relazione di complicità e di amicizia, Ana è la nipote di Sonja e insieme hanno raccolto i suoi racconti per dieci anni. Ma c’è anche qualcosa di più, oltre alla consuetudine e al sentimento: Marta Popivoda non si limita all’ascolto, la Storia che Sonja ha vissuto, che riguarda la ex-Jugoslavia e il mondo intero è messa in dialogo col presente in cui vivono Marta e Ana che hanno lasciato la Serbia e si sono trasferite a Berlino – nel cuore del capitalismo a fronte di quello periferico dei Balcani come annota la regista sul suo diario. Questo fa la differenza, che è poi sostanzialmente di una forma che si interroga rispetto alla propria materia.

È CHE LE SCELTE di Sonja così determinate e senza paura, da donna in mezzo agli uomini – è stata la prima partigiana – sembrano essersi perdute, quasi opacizzate nel corso del tempo. E la giornata della donna che nella ex-Jugoslavia era festa nazionale oggi è un evento per pochi: femministe, attivisti lgbtq, i ragazzini passano davanti e commentano: «I soliti froci».
Il comunismo per Sonja era iniziato sui banchi di scuola, il padre era un militante, nella prima guerra mondiale si era opposto ai tedeschi, Sonja era stata espulsa dal liceo per le sue idee politiche e insieme al compagno, divenuto poi suo marito, aveva lasciato Belgrado continuando a combattere per i diritti delle donne, dei lavoratori, dei contadini, per l’istruzione, i libri. Il dialogo tra passato e presente, tra «il suo comunismo e il nostro marxismo culturale» come dice Marta Popidova riflette sulla nostra realtà: cosa significa impegno, militanza, e soprattutto essere comunista a fronte dei fascismi che assumono oggi molti aspetti, che si mimetizzano nei divari sociali dove crescono le promesse dei populismi, nell’ostilità inferocita contro i migranti, nel sessismo e nelle esclusioni di gender.

Quando Sonja torna dal campo di concentramento deve rispondere a molte domande, affrontare sospetti, se aveva collaborato con i nazisti, se era stata una kapò. Lei non si arrende e continua la sua battaglia, che diviene quella di non permettere l’oblio e nemmeno di mummificare la lotta partigiana riducendola a una celebrazione.«Non dobbiamo essere eroi per essere partigiani ma dobbiamo essere partigiani» ripete Sonja quando parla di sé senza retorica, con semplicità. La stessa semplicità delle immagini a cui Popidova affida questa narrazione orale per lasciarne libera la potenza, la forza di evocare senza orpelli. Seguendo il flusso delle parole guarda nel paesaggio, tra le fronde dei boschi, nei prati, nelle casette del campo di concentramento che oggi è un museo: i luoghi parlano insieme a Sonja, tracciano la distanza storica, lasciano aperte le questioni poste, i conflitti che ci appartengono.