La regola di Korim. Visioni di Zoltan Fazekas (a cura di Alessandro De Filippo ScritturImmagine, Catania 2014, pp. 72, liberamente scaricabile dal sito www.scrimmedizioni.com) è un libro che analizza l’opera di Fazekas nel contesto di altri lavori, di altri artisti: «Oltre al progetto di Zoltan Fazekas, che si compone – come vedremo più avanti – di quattro momenti espressivi, ci occuperemo anche del progetto di Rachel Roze, intitolato We Were in Sicily, di tre immagini insignite del Premio Pulitzer 2013, per ’la copertura della guerra civile in Siria’, di una ricerca dell’anarchico Pino Bertelli, del 1987, sul significato di fotografia sociale, e di alcune fotografie di moda, che hanno come centro di interesse alcuni capi di biancheria intima».

Uno spettro diversificato e ampio, come si vede, che va dalle «immagini di Rachel Roze fatte di carne» – umana e nuda, animale e uccisa – alla documentazione del conflitto civile in Siria, nel quale la Guerra si fa Spettacolo perché – come sostiene Debord, anche se non esplicitamente citato da De Filippo – «lo Spettacolo è l’epifania stessa del Capitale, la dimostrazione baldanzosa e incontrovertibile della sua esistenza. L’immagine della guerra è la manifestazione tanto della baldanza quanto della incontrovertibilità del Capitale»; spettro che va dalla fotografia di moda – «Mondi e donne, lingerie e panorami, muri bianco limbo e drappi colorati e svolazzanti o accessori glitterati e appariscenti, tutto fa immagine nel mondo della rappresentazione glamour» – al lavoro politico di Pino Bertelli e Maurizio Moretti nella Maremma del 1987, lavoro forse troppo sbrigativamente liquidato da De Filippo con la formula di «fotografia come lapide».

Si arriva così alla «riflessione metalinguistica» del fotografo ungherese Fazekas. Metalinguistica perché giocata con il tempo della tecnica fotografica e con la memoria dei suoi risultati, giocata «tra il nitore diamantino di una trasparenza assoluta, della chiarezza della ragione – da Socrate a Voltaire – e l’opacità che rende oscuro, inintelligibile e inenarrabile un momento dell’esistenza – da Eraclito a Nietzsche –, in quel limbo diafano delle coscienze appena ridestate dal sonno e dal sogno».

Le diapositive e le elettrografie di questo artista descrivono mondi finiti, genti che sono state, oggetti trascorsi, materia dissolta, il passato, il fu, l’allora, il non più. E lo fanno dopo aver messo da parte la macchina fotografica per dedicarsi a un lavoro materico sulle opere altrui. Le diapositive vengono seppellite nella terra o stese nell’umido dell’aria, cangiando in questo modo la loro natura, diventando – da mezzo che erano – il fine stesso della rappresentazione.
Come sempre quando la ricerca è consapevole di ciò che fa e i modi sono all’altezza di un progetto, è del morire del mondo che qui si parla. Un morire che, per l’appunto, è «trasparente e insieme oscuro», colorato e grigio, come il vivere.