La cartoleria, ha raccontato Jean Rhys, era a Fulham, nei pressi di King’s Road. Lei aveva traslocato in quel quartiere il giorno prima, sugli autobus diretti verso Fulham stava scritto «la fine del mondo» e l’indicazione le era sembrata promettente. Veniva da un alberghetto di Bloomsbury in cui si era sistemata dopo la fine della storia con Lancelot Hugh Smith e in cui si sentiva talmente depressa che passava il tempo a sbronzarsi di gin progettando di buttarsi giù dalla finestra. Lo aveva conosciuto più o meno tre anni prima, quando aveva chiuso con l’Accademia di Arte Drammatica perché il suo marcato accento coloniale, era nata in Dominica il 24 agosto 1890, non le avrebbe mai consentito di aspirare a un ruolo da prima attrice e i genitori, padre gallese e madre creola, avevano smesso di sborsare i soldi per i corsi. Decisa a restare in Inghilterra, dove era arrivata diciassettenne per completare la sua istruzione in una boarding school di Cambridge, sbarcava il lunario facendo la ballerina di fila nelle compagnie di giro e la comparsa in filmetti di terz’ordine. Però era giovane, aveva occhi grigiazzurri e pensava che prima o poi ce l’avrebbe fatta a sfondare nel mondo dello spettacolo.

Smith era molto più vecchio di lei e molto ricco: di lui le piaceva la voce e soprattutto il modo di camminare, se ne innamorò perché le sembrava il protagonista di tutti i libri su Londra che aveva letto. La scaricò da gentiluomo e con aristocratico tatto continuò a mantenerla per parecchio tempo facendole versare dal suo avvocato un assegno mensile; si accollò perfino le spese per interrompere una gravidanza di cui non era lui il responsabile, per consolarla le mandò in regalo un gattino. Dalla fine per lei così traumatica di quell’amore adolescenziale Ella Gwendoline Rees Williams – questo il suo nome prima che nel 1927 l’amante Ford Madox Ford le inventasse uno pseudonimo – non si sarebbe tuttavia mai ripresa veramente, se continuò a «collezionare» maschi da cui dipendere per sentirsene insieme protetta e sfruttata. Quel pomeriggio del gennaio 1914, mentre passeggiava per Fulham con l’unico obbiettivo di rendere più accogliente la nuova camera in affitto, Jean Rhys si imbattè però negli strumenti di una personale cura del dolore, anche di una propria forma di autonomia, incontrando senza mancarlo il suo destino.

Penne colorate e quaderni neri

Nella vetrina della cartoleria erano esposte penne di tutti i colori, pensò che infilate dentro un bicchiere avrebbero fatto una bella figura sul suo tavolo e ne acquistò una dozzina. Acquistò anche parecchi quaderni, avevano la copertina nera lucida e i bordi rossi, le pagine a righe. Prese inoltre una scatola di pennini e un astuccio e una bottiglia di inchiostro e un calamaio. Era sicura che la sua stanza ora sarebbe apparsa molto meno disadorna. Quella sera stessa aprì il primo quaderno: lavorò senza sosta per molti giorni, di quaderni ne riempì quasi quattro mettendoci dentro la sua storia. Poi li chiuse in valigia sotto la biancheria e non ci pensò più per sette anni, continuando a rimpinzare il tempo di uomini, strade, camere in affitto, bicchieri di gin. Con le penne e i quaderni di Fulham era però cominciata la sua formidabile avventura di scrittrice: nascosto tra reggiseni e sottovesti stava l’abbozzo di quello che diventerà nel 1934 il suo terzo romanzo, Viaggio nel buio. Nient’altro che la vicenda molto vera, per quanto appena ritoccata, del suo arrivo in Inghilterra e del suo disinganno amoroso, della sua ingenua, lenta benché inarrestabile discesa verso la solitudine, la degradazione e lo squallore.

«Non ho mai scritto quando mi sentivo felice. Proprio non mi interessava. Purtroppo non sono mai stata felice a lungo. Pensandoci adesso, se potessi scegliere preferirei essere felice che scrivere. Vede, c’è molto poco di inventato nei miei libri. Nella maggior parte dei casi il primo impulso è stato il desiderio di farla finita con questa spaventosa tristezza che mi schiacciava. Mi resi conto da bambina che se fossi riuscita a metterlo in parole, il dolore sarebbe passato. Lascia dietro di sé una specie di malinconia e poi se ne va», dichiarava Jean Rhys in un’intervista concessa alla prestigiosa «Paris Review» nel 1979, pochi mesi prima della morte. Cosa racconta del resto anche Il grande mare dei sargassi, quel capolavoro travestito da prequel di Jane Eyre che nel ’66 segnò la sua riscoperta dopo un silenzio protrattosi per quasi trent’anni, se non la storia di una donna creola trapiantata in Inghilterra e abbandonata dall’uomo che ama, precipitata nella follia per il disprezzo e l’incomprensione e il gelo di un mondo che le è estraneo? Non erano granché diversi nemmeno gli ingredienti del quarto romanzo, l’ultimo apparso prima che il nome di Jean Rhys, anzi la sua stessa persona, scivolasse nel buio melmoso della dimenticanza.

Caduta dentro l’oscurità

Pubblicato in Inghilterra nel 1939, tradotto in italiano da Miro Silvera per Bompiani nel ’73 e nella stessa versione recuperato adesso da Adelphi, cui va il merito di una riproposta dell’opera di Rhys ormai quasi integrale, Buongiorno, mezzanotte («Fabula», pp. 169, € 17, 00) ruba il suo titolo, come denuncia la citazione posta in esergo dall’autrice, al verso incipitario di una poesia di Emily Dickinson. Nessun titolo potrebbe risultare più esatto per racchiudere il significato intero del romanzo, che narra insieme la caduta dentro l’oscurità della protagonista e del mondo all’avvicinarsi della guerra. La poca trama è vistosamente ricalcata sulla storia di Rhys con il primo marito Jean Lenglet e sulla solitudine di lei dopo l’abbandono di lui: una donna che si fa chiamare Sasha, ma il cui vero nome forse è Sophie, lascia Londra per tornare a Parigi dove ha vissuto appena sposata e dove ha partorito un bambino che è morto neonato. Non ha un soldo, sta invecchiando e rimorchiare diventa difficile, fa amicizia con un bizzarro pittore russo, rifiuta la corte di un gigolò che forse potrebbe amarla e forse si concede a un commesso viaggiatore che sembra un pessimo soggetto. Nel mezzo c’è una caotica sequenza di stanze in affitto e Pernod tirati giù di fretta e lacrime e vestiti che potrebbero cambiare la sua vita e capelli tinti biondo cenere perché forse la faranno sembrare un po’ più giovane. Forse.

La statura straordinaria di Jean Rhys, in questo più che nei romanzi precedenti, sta nell’abilità con cui lavora su quel «forse». Il naturalismo apparente del soggetto si frantuma grazie alle scelte di uno stile icasticamente modernista in un allucinato flusso di coscienza che incarna nel suo ritmo la disappartenenza della protagonista alla realtà e insieme la credibilità perfetta di lei, la sua lucidità in funzione di assoluta voce narrante. «La verità è inverosimile, fantastica; la puoi scorgere veramente soltanto in ciò che ti appare in uno specchio deformante», riflette Sasha per l’autrice. L’osmotico passaggio dalla seconda alla prima persona, il gioco raffinato di iterazioni e ellissi, il millimetrico innesto del passato sul presente, la scomposizione obliqua di ogni inquadratura, il timbro ironico benché straniato fanno di una storia inesistente uno strepitoso romanzo sull’orrore della realtà, e la disperazione e l’abbandono. Ha scritto Diana Athill, sua grande editor e amica, che il vero mistero di Jean Rhys era la coesistenza in lei di una donna inadatta alla vita e di una narratrice che sapeva esattamente quello che voleva. Le bastava una dozzina di penne colorate, qualche quaderno a righe, con la copertina nera e il bordo rosso.