Freddie ha venticinque anni, è nata in Corea del Sud ma è stata adottata molto presto da una famiglia francese, la Francia è dunque il posto in cui è cresciuta, ma a un certo punto eccola a Seoul; per caso, dice lei, perché il maltempo le ha impedito di arrivare in Giappone, e quel viaggio rivela ben presto una ricerca, quella dei suoi genitori biologici, e di un Paese che non conosce, che la sorprende e la spiazza. Una ricerca attraversata da sentimenti contrastanti, malinconia, rabbia, che fluttua in più direzioni ritmando la narrazione del film di Davy Chou, presentato lo scorso anno a Cannes, e ora nelle nostre sale.
Quarantenne, di famiglia cambogiana che col cinema ha sempre avuto relazioni speciali, suo nonno era infatti uno dei più importanti produttori di quel cinema in Cambogia distrutto dall’arrivo del regime di Pol Pot- Chou ne ha costruito costruito una possibile memoria in Le Sommeil d’or (2012) – nelle sue storie (prima di questo Diamond Island, 2016) sembra prediligere quei margini in cui sono racchiuse le tracce di una memoria (e di esistenze) possibili, che intrecciano un presente, un passato e, forse a un futuro.
Il centro di Ritorno a Seoul è la sua protagonista (Park Ji-Min, all’esordio da attrice) indocile, ostinata, di cui seguiamo i vagabondaggi nella capitale sudcoreana; una flanerie che passo dopo passo rivela i suoi stati d’animo, provoca improvvise fratture emotive tra incontri inaspettati e situazioni che le sfuggono. È che Freddie (personaggio per il quale Chou si è ispirato alla vicenda vissuta da una sua amica) prova a celare una fragilità troppo a lungo rimandata, qualcosa di doloroso, il desiderio inespresso di conoscere i genitori, e insieme la consapevolezza di una storia che lei ha sempre evitato.

CI SONO molte cose che resteranno sospese nel film, ma forse è anche bene che accada, e altre che non troveranno risposte, non sempre almeno quelle volute. A rintracciare i genitori Freddi non ci impiega troppo tempo, ma la vera questione è: che fare a quel punto? Cosa dirsi, come andare avanti, come non farsi assalire dalla frustrazione? Il padre, goffamente, prova a recuperare gli anni passati nel breve incontro le regala un paio di scarpe, sembra fuori posto. Lui, che ora ha una famiglia, l’ha lasciata per darle un futuro migliore, per il suo bene. Ma i due non si capiscono, c’è la distanza linguistica, e soprattutto quella del cuore, il «lost in traslation» che può anche addolcire – o invece fare più male.
Melò di domande e di risposte, di vuoti sentimentali e di gesti spigolosi, Ritorno a Seoul conferma il talento di Chou, che sa comporre senza retorica lo stato d’essere tra più mondi, e culture, l’appartenenza e la distanza, seguendo appunto le linee sottili delle possibilità, i frammenti di ciò che si poteva essere e di ciò che si è.