Cinque anni che manca da Raqqa, Mahmood. Non ci è più tornato da quando l’Isis aveva preso il controllo della città. È lui la nostra guida. Curdo, poco meno di trent’anni, ha perso diversi familiari in questa guerra. Guida senza fretta, come per ritardare l’arrivo in città. Forse perché immagina cosa ci aspetta, lo spettacolo che troveremo di fronte.

«ECCOLA RAQQA – fa segno con la mano quando in lontananza si comincia a intravedere la città – tra poco ci siamo». Nessuno, forse neppure lui, è preparato alla scena che ci troveremo di fronte. Uno scenario apocalittico. Si capisce subito che è peggio di quanto chiunque si possa aspettare.

 

Raqqa distrutta dai più duri bombardamenti Usa dalla guerra del Vietnam (Foto di Ivan Grozny Compasso)

 

Superato l’ultimo checkpoint si arriva a una rotonda e di fronte, intuiamo, ma è Mahmood a confermarcelo, ci doveva essere la stazione dei treni. È tutto a pezzi. Vagoni capovolti, rotaie sollevate, alberi sradicati. La calura poi, ci sono più di 40 gradi, rende l’impatto ancora più forte. Un odore intenso di bruciato entra dai finestrini. A precedere il mezzo con cui percorriamo la strada un piccolo camioncino condotto da un anziano signore. Nel vano posteriore sono ammucchiati rottami che l’uomo evidentemente raccoglie in giro per la città.

Attività molto rischiosa perché Daesh ha minato quasi tutti i quartieri e avventurarsi tra le rovine può costare la vita. In piedi non è rimasto praticamente nulla. Percorsa questa arteria lunga cinque o sei km si è costretti a virare su una sopraelevata. Se l’impatto iniziale dà l’idea di una catastrofe, una volta presa la strada che porta al centro della città la situazione è ancora peggiore.

QUANDO SI È IN CIMA si capisce che non sarà facile rimettere in piedi questa città. Non c’è un edificio che non sia stato oggetto di colpi di mortaio o di fuoco aereo, figuriamoci da armi leggere. Si rimane senza fiato. Mahmood a un certo punto rompe gli indugi e il silenzio di morte che ci circonda per spiegare cosa c’era prima che avvenisse tutto questo.

 

(Foto di Ivan Grozny Compasso)

 

«Mi raccomando – ripete più volte – non avventuratevi e non toccate nessun oggetto che si trova a terra. Potrebbe essere molto pericoloso. Un sacco di gente si ferisce o muore in questo modo. La guerra non finisce mai».

MAHMOOD HA CONTINUATO a coltivare le relazioni attraverso delle chat, solo così ha potuto mantenere i rapporti con la sua famiglia e gli amici che qui hanno scelto di rimanere. Lui invece ha preso un’altra strada, quella della resistenza armata nelle file dello Ypg. Le prime persone che vediamo sono due bambine, molto piccole.
Sono sull’uscio che osservano le poche auto che passano. Ci fermiamo, hanno una espressione spaventatissima. Non ci sono adulti vicino a loro.

Mahmood si rivolge loro in curdo e loro ricambiano salutando ma non esce neppure una parola, neppure un sorriso. La paura è ancora tanta. In pochi giorni qui ci sono stati due attentati sanguinosi, ci sono ancora sacche di resistenza dell’Isis e non solo, è il terrore a farla ancora da padrona. La porta della loro casa dietro alla quale si nascondono è crivellata di colpi.

 

(Foto di Ivan Grozny Compasso)

 

Non osiamo chiedere loro nulla, solo se c’è qualcuno che si occupa di loro. Fanno un cenno con la testa e fanno capire che sì, qualcuno c’è. Riprendiamo la marcia molto lentamente. Non crediamo ai nostri occhi, è una catastrofe.

SE LE CASE SONO A TERRA e i palazzi completamente distrutti è ovvio che parlare di corrente e di acqua potabile non ha senso. Passano, per le vie accessibili, dei camion cisterna che la distribuiscono alla popolazione. La prendono direttamente dall’Eufrate dove i ponti che collegavano la città non ci sono più e per arrivare da una sponda all’altra si usano delle zattere. Bambini giocano nelle acque del fiume, cercano conforto contro il calore. Sorridono e scherzano quasi senza badare a ciò che li circonda.

Sembra siano gli unici a non farci caso. Bambine invece si avvicinano a noi offrendoci del chai caldo da dei termos. Un modo per guadagnare qualche spicciolo. Il fiume, l’Eufrate, è il luogo dove si trovano più persone. Ma per le strade no, c’è pochissima gente.

(Foto di Ivan Grozny Compasso)

 

Ci raggiunge Said, curdo pure lui. Non ha combattuto, è rimasto sempre qui a prendersi cura dei suoi anziani genitori. Qualche mese prima della liberazione, ottobre 2017, è stato arrestato e condotto allo stadio della città. Lì, come avveniva nel Cile di Pinochet, sono state rinchiuse migliaia di persone.

LA COLPA DI SAID? Aver piegato la testa, non aver voluto assistere all’uccisione dello zio: «Le esecuzioni erano quasi sempre pubbliche – racconta con tono fermo quasi a voler trattenere la forte emozione – e le persone venivano uccise nei modi più barbari. So che nell’immaginario c’è l’idea dei tagliagole, delle teste mozzate, ma credetemi, vedere persone la cui testa viene messa nell’olio bollente fino a che spiravano, sono immagini che non scorderò mai. A mio zio è toccata questa sorte. Io ho fatto di tutto per non guardare e per questo sono stato incarcerato nello stadio. Le scuole erano state convertite a tribunali e gli asili a centri di addestramento per i bambini soldato strappati ai genitori».

(Foto di Ivan Grozny Compasso)

 

Le foto che ci mostra dal suo telefonino non lasciano dubbi. Il nostro giro dura ore e lo scenario non cambia mai. Solo quando arriviamo a una delle porte delle antiche mura, l’unica rimasta in piedi, ci pare quasi una visione confortante.

«QUESTA NON L’HANNO distrutta solo perché la usavano come base per le loro azioni. Sotto hanno scavato dei cunicoli, perché si muoveva così Daesh, in città. Come i topi che scorrazzano nelle fogne».

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VIDEO DA RAQQA: