C’è bisogno di più finanza, di più mercato, di più circolazione di capitali che irrorino l’economia e le imprese. Sembra il delirio di qualche infelice che non abbia nozione alcuna delle crisi di solo pochi anni fa, e che continui con la stessa nenia di una utopia mercatista al tramonto, ed invece è una credibile sintesi delle posizione espressa dai vertici Ue di pochi giorni fa. Fra la incombente approvazione della riforma del Patto di Stabilità (che si vorrebbe chiudere prima di giugno) e l’orientamento di massima per il bilancio Ue per l’anno prossimo, la parte di cenerentola spetta a qualcosa ignorato non solo dalla totalità dei cittadini, ma anche a molti commentatori di affari europei: l’Unione del Mercato dei Capitali.

Si ritiene generalmente che la Ue abbia dato luogo, con l’euro e la proibizione di vincoli alla circolazione di capitali, ad un mercato finanziario integrato. Per qualcuno non è così, o quanto meno, non in misura sufficiente: fra essi l’allora presidente della Commissione Juncker, che nel 2014 propose un piano di completamento della unione monetaria (cioè l’euro) e bancaria con una ulteriore uniformazione delle norme sull’investimento finanziario. Tale finalità venne rilanciata dalla Relazione dei cinque presidenti del 2015. Il progetto subì un rallentamento fra il 2017-20 ma venne rilanciato dalla nuova commissione di Von der Leyden, che ha pensato il suo Green Deal come complementare a tale ulteriore integrazione finanziaria. Concretamente si tratta di armonizzare le normative degli Stati membri per costruire maggiore facilità di investimento all’estero.

L’immaginario retrostante a tale disegno comprende da un lato una visione dei capitali finanziari come un fluido corroborante che andrà “spontaneamente” a fluire nei pertugi dei bisogni dell’economia europea: il geniale imprenditore tecnologico troverà certo un investitore estero, se i suoi concittadini non lo fanno. Dall’altro l’idea di creare un polo economico più competitivo mettendo a frutto tutte le risorse interne. E così facendo si darà una mano pure alla integrazione comunitaria, in costante crisi, creando una interdipendenza maggiore. Esempio di tale logica è l’aspettativa che gli investitori sostituiscano le banche come finanziatori delle imprese – così come accade nel contesto Usa. Tutto questo bengodi dovrebbe pure attirare capitali esteri. Nella Dichiarazione dell’eurogruppo dell’11 marzo scorso si legge infatti: «Un mercato dei capitali aperto e liquido che è ben integrato nei mercati globali è importante per sostenere il flusso di investimenti privati nell’innovazione, anche nei settori verde e digitale. Con il limitato spazio fiscale e le priorità di spesa multiple, i fondi per costruire la capacità produttiva e promuovere l’innovazione in Europa devono provenire principalmente dal settore privato».

Per fare tutto ciò le istituzioni Ue si sono mosse in modo felpato per ogni tipo di investimento finanziario: l’azionariato, le obbligazioni (pubbliche e private), mercato dei crediti, capitale di rischio. I problemi sono due: primo le economie europee non sono solo in concorrenza con quelle extra-Ue ma anche (a volte soprattutto) fra di loro, quindi ogni modifica che sposti interessi ingenti diventa un Vietnam in cui chiunque si sente minacciato fa una guerriglia contro l’uniformazione. Secondo, chi dice che lo sviluppo finanziario sia così vantaggioso? Oramai anche ricerche molto ortodosse indicano che esso amplifica i rischi di crisi, distribuisce male le risorse; le piccole-medie imprese non riescono a corrispondere agli standard contabili, molto esigenti, d’uso per le società quotate, e quindi rischiano di restare fuori dai finanziamenti. A fronte di questo panorama cosa cambia oggi? Sostanzialmente niente. Si vede a che punto si è arrivati e si prende fiato per un nuovo slancio.

Nonostante l’indubbia rilevanza oggettiva si tratta di materia di specificità estrema, praticamente ignorate da chiunque non sia un addetto ai lavori. Difficile fare grande aggregazione politica attorno alle norme sulla cartolarizzazione o sui green bond. Ma la strategia del potere si è massicciamente basata sul costruire tecnicamente, nell’ombra, elementi la cui nocività si riscontra successivamente; ma allora per sbarrargli il passo è tardi, e tornare indietro è molto difficile. Occorre capire ed agire prima.