Un sequel inevitabile. La domanda: come? Non rovinare il ricordo del capostipite ma reinventarne le potenzialità e, cosa non secondaria, creare un «brand». La masterclass del titolo non fa tanto riferimento ai reality culinari quanto a una nuova strategia produttiva in grado di permettere al cinema popolare di trovare una nuova identità al passo con i tempi, in linea con le nuove modalità fruitive e – soprattutto – con le «velocità» di consumo digitali che hanno trasformato radicalmente il panorama massmediale e cinematografico italiano e internazionale. Fra i produttori italiani, Matteo Rovere è probabilmente colui che maggiormente si è posto questi interrogativi, tentando di adottare il modulo dello «storytelling» crossmediale caratteristico della produzione tv statunitense intrecciandolo però con le caratteristiche migliori della tradizione della commedia all’italiana.

In questo senso il sequel del film di Sydney Sibilia è un tentativo di far dialogare una vera e propria politica dei produttori, come quella praticata da Rovere, con un gusto per il cinema schietto, popolare, ma anche sofisticato, di Sibilia il quale si presenta oggi come un modello di cineasta intimamente italiano e proprio in virtù di questa sua riconoscibilità assolutamente esportabile. Smetto quando voglio – Masterclass è un esempio estremamente calzante di un cinema «locale» di taglia internazionale che si concede il lusso di esserlo su una base nazionale ma non più nazionalista o protezionistica. Insomma: un cinema sostenibile che non invoca eccezioni culturali. In questo senso l’ostacolo del sequel è brillantemente superato adottando un’ottica seriale, anche se a tratti intriga più la gestione dell’operazione che le eventuali meccanicità di alcuni passaggi di sceneggiatura o i tratti di alcuni personaggi ridotti alle loro funzionalità narrative.

Le gag del film sono molto lontane dalla tradizionale scrittura della commedia all’italiana avendo come modello la sintesi di un «webisode». L’aspetto senz’altro più interessante è la modalità con la quale il film si riappropria della mitologia urbana del territorio di Roma. Con crasi tipicamente filmica (quelle che sembrano) le Mura aureliane, l’Eur, Civitavecchia, la Basilica di Massenzio compongono una geografia lunare, offrendo l’immagine di una città «altra», vicina alla Roma di Jeeg Robot, post-Suburra; un territorio schiettamente «fantastico». Ed è grazie a questa profonda intuizione (una sorta di «crisi della ragione cartografica» su scala infinitamente minore…) che il set-piece finale, l’inseguimento del treno con i side-car (inevitabilmente si pensa a Castellari e al suo «treno blindato») che il film riesce a scivolare da una dimensione di action-movie demenziale, landisiano, alla commedia stile Nanni Loy (dalla quale sembra provenire la magnifica faccia di Francesco Acquaroli, una specie di fratello maggiore di Michael Shannon). Senza contare le musiche, deliziosamente citazioniste di Michele Braga, che reinventano il Micalizzi funky e «poliziottesco».

Anche il montaggio, di Gianni Vezzosi, risponde alle esigenze di un film fluido e veloce, mentre la direzione della cinematografia, pop, sottilmente fumettistica, a firma di Vladan Radovic, contribuisce genialmente a derealizzare il «tutto». Smetto quando voglio – Masterclass, al di là di qualche manierismo attoriale e di qualche fragilità, è l’esempio convincente di un cinema italiano pronto ad accogliere le sfide di un mercato globalizzato senza rinunciare allo specifico di quanto contribuisce alla sua identità ormai crossmediale. Come una «terza via» del cinema italiano.