Cineasta fuori misura, Fabrice Du Welz si è costruito una solida reputazione da maverick, eccedendo gli angusti limiti della presto implosa nouvelle vague horror transalpina. Bizzarro animale cinefilo, Du Welz non è un Winding Refn. Al di là dei ceri accesi sull’altare dei numi tutelari della serie B e Z, possiede un gusto che osa mettere in relazione mondi estremamente distanti fra loro come dimostra, per esempio, il controverso Vinyan nel quale il macroriferimento a Oltre Rangoon s’intreccia con Ma come si può uccidere un bambino?

Alléluia, che segue Colt 45, evidenzia, in maniera incontrovertibile, il limite la potenza del cinema di Du Welz. Le sue ambizioni e le sue fragilità.Rifacimento paradossale di I killer della luna di miele, Alléluia è un ipermelodramma strizzatissimo tagliato alla perfezione sul corpo e la performance tutta furore dell’almodovariana Lola Duenas, femmina folle che non si ferma dinnanzi a nulla pur di restare avvinghiata al suo amore che ha il volto del fedelissimo Laurent Lucas. Du Welz rischia moltissimo e evta accuratamente qualsiasi approccio psicologizzante. Alléluia ci precipita senza mezzi termini nel contratto amoroso che lega Gloria e Michel, nel quale il corpo dell’uomo è l’oggetto del contendere e il terreno stesso sul quale il patto prende compiutamente forma.

Giocando senza complessi con un registro ferocemente grottesco, stringendo in primi e primissimi piani sul volto dei due amanti, il film si abbandona con un evidente piacere alla descrizione iperbolica di un’ultraviolenza che nella sua precisione grafica attinge a un inedito e nero lirismo. A ben vedere, la materia di Alléluia è prossima, tematicamente, allo Chabrol de Il tagliagole, fatte salve tutte le differenze del caso. Una provincia addormentata e affamata di sesso, popolata da donne isteriche e frustrate, battuta palmo a palmo da un maschio idiota che per conquistare le sue prede necessita addirittura di un rito voodo dandosi arie da stregone. Materia esplosiva e di difficile gestione, quella di Alléluia ma Du Welz se la gioca tutta in nome di un piacere viscerale del cinema e della messinscena, utilizzando una fotografia sgranata, saturata, quasi artificiale nella sua ricercatezza.

Diviso in capitoli che rispondono ai nomi dei protagonisti e delle loro vittime, il film procede con un passo attonitamente monotono, nel quale le esplosioni di violenza o le invenzioni registiche, sublime la canzone di Gloria prima di mettersi all’opera sul corpo inerme di Marguerite, si offrono come il segno tangibile di un piacere fisico del fare cinema che, nell’ambito dei cosiddetti generi, sembra essere diventato oggi materia piuttosto rara. Non sempre Du Welz centra il bersaglio e a tratti il suo piacere assume i tratti di un feticismo formalistico che sembra sabotare il fluire del racconto. Eppure, avvolto da un sound design musicale che evoca le tessiture electro-ambient dei Chromatics, Alléluia, nonostante i suoi limiti, conferma la singolarità dello sguardo e della poetica di Fabrice Du Welz. Alléluia, in questo senso, si offre come un nuovo tassello di una filmografia discontinua ma straordinariamente affascinante. Garanzia quasi certa che un giorno Du Welz firmerà un film che ci costringerà a mettere da parte tutti i distinguo che sin qui hanno accompagnato la visione dei suoi film.