Difficilmente Éric Rohmer viene associato al teatro, eppure il noto regista francese scrisse un testo per la scena, chiamato Il trio in mi bemolle. Avrebbe dovuto essere il quinto episodio di Reinette e Mirabelle (1987) ma prese una via diversa, che conduceva per l’appunto al palcoscenico. I personaggi sono due, Adélie e Paul, fino a qualche tempo prima una coppia solida. Ora ognuno conduce una sua vita indipendente, eppure Adélie riprende a fare visita a Paul di tanto in tanto. Gli incontri sono sempre più significativi, le personalità dei protagonisti si squadrano, si sporgono, tracciano dei perimetri per poi oltrepassarli.

Rita Azevedo Gomes ha deciso di riportare al cinema questo intenso testo sull’autentico mistero dell’amore, il suo O trio em mi bemol è stato presentato alla Berlinale nella sezione Forum, dove torna tre anni dopo A Portoguesa. La realizzazione del film si basa sull’amicizia, la regista portoghese infatti è anche produttrice e gli attori hanno scelto di recitare gratuitamente.

I personaggi principali sono interpretati da Rita Durão e Pierre Léon, e se la prima è un’attrice che torna spesso nei lavori di Azevedo Gomes con il secondo, anche regista, c’è un’idea di cinema comune fino alla condivisione della firma di Danses macabres, squelettes et autres fantaisies del 2019.
Questo adattamento di O trio em mi bemol si distingue dall’originale per un ulteriore livello di rappresentazione, si scopre infatti presto che i dialoghi tra i due protagonisti costituiscono un film nel film il cui regista è nientemeno che Ado Arrieta.

È presente quindi una riflessione sul ruolo stesso di Azevedo Gomes, di cui Arrieta è una sorta di alter ego, eppure la profondità degli scambi tra Adélie e Paul, la verità con cui i loro sguardi arrivano al nostro ci fanno spesso dimenticare di questo ulteriore déplacement. Abbiamo incontrato la regista a Berlino e le abbiamo posto alcune domande per approfondire le ragioni di questo film senza tempo, girato interamente all’interno di una casa e nel suo giardino, dove la musica – il titolo è quello di una composizione di Mozart – si fa linguaggio dell’anima e termometro di affinità.

Qual è la sua relazione con il cinema di Éric Rohmer e perché ha scelto di realizzare un film da «Il trio in mi bemolle»?
Mi piacciono molto i suoi film, soprattutto la cura che adopera nei confronti delle relazioni umane. Non ho nessun legame particolare con Rohmer a parte questo. Rispetto a O trio em mi bemol, tutto è cominciato dal sogno di realizzare uno spettacolo teatrale, desideravo molto lavorare con gli attori a teatro perché c’è più tempo per approfondire il dialogo. Ho pensato allora al testo di Rohmer, che nei piani iniziali avremmo dovuto realizzare anche come radio dramma, mettendo in scena lo spettacolo con il pubblico e registrandolo al tempo stesso. Poi ho dovuto accantonare l’idea perché ho iniziato a lavorare su A Portoguesa ma l’interesse per quel testo mi è rimasto, l’ho persino tradotto per comprenderlo più a fondo.

La scintilla che ha acceso questo progetto sono stati i miei sentimenti causati dal primo lockdown, un insieme di grazia e orrore, ero felice del silenzio che mi circondava e del fatto che ogni persona su questo mondo condividesse un pensiero comune, nonostante poi abbiamo perso quest’opportunità di essere insieme. Io e gli attori principali, Rita Durão e Pierre Léon, abbiamo iniziato a dedicarci a O trio em mi bemol proprio per continuare a creare ed essere attivi in quel periodo di immobilità, nonostante non avessimo alcun budget. E allo stesso modo è andata con la strumentazione, con la casa dove abbiamo girato e via dicendo, le persone si sono aggiunte come per magia ed è stato possibile realizzare il film. Durão e Léon hanno provato da principio davanti allo schermo tramite le videochiamate, una modalità che aveva creato una grande familiarità tra loro e che ho dovuto in parte decostruire una volta che ci siamo riuniti sul set. Avevo comunque la sensazione che tra loro avrebbe funzionato sebbene in precedenza si fossero incontrati solo per pochi giorni mentre giravamo A Portuguesa.

Nel passaggio tra teatro e cinema ci sono state delle difficoltà? In generale, è interessata alla complessa relazione tra questi due linguaggi?
Entrambi lavorano sulla rappresentazione della vita ma sono molto diversi, il cinema è fantomatico, il che non significa che non sia reale, ma non c’è un essere vivente di fronte a te. Il mio approccio a un testo da mettere in scena sarà totalmente differente da quello per farne un film, già semplicemente per il tipo di supporto su cui verrà visto: lo schermo ha delle specificità come quella di essere rettangolare, c’è poi il fondamentale ruolo della luce, senza la quale non accade nulla. A teatro invece ci sono gli attori che sudano, sanguinano, che hanno trascorso una bella o una brutta giornata…
Spero comunque di realizzare lo spettacolo di O trio em mi bemol un giorno. Per questo film, invece, ho immaginato e inserito la figura del regista, inizialmente l’avevo pensato come un giovane perso nel processo creativo ma poi ho avuto l’idea di coinvolgere Ado Arrieta che, nonostante non sia giovane, ha l’energia di un bambino curioso, e quando è perso in realtà sta solo cercando di costruire qualcosa, un po’ come me: cerco di unire tanti elementi che mi piacciono e continuo a lavorarci fino a quando non trovo la giusta combinazione, quella che funziona, solo allora posso consegnarla al pubblico.

I protagonisti ripetono spesso la frase «pour l’instant», per il momento. Che tipo di temporalità c’è in questo film?
La temporalità nel testo è piuttosto scandita, nel corso di un anno il personaggio di Adélia va a visitare Paul per sette volte. Ma tra loro accade qualcosa di particolare, c’è il tentativo di entrare l’uno nell’altro, di comprenderlo nella sua totalità.
Non sappiamo mai veramente com’è fatta un’altra persona, facciamo delle supposizioni, poi conoscendosi ci si avvicina, ma nelle relazioni d’amore si genera potremmo dire una curiosità infinita. È questo movimento a essere atemporale, sembra infatti che si trovino in una bolla e anche noi lo eravamo, grazie alla casa dove abbiamo girato, che ho subito amato moltissimo. Sembrava un’enorme conchiglia, quasi uno strumento musicale in sé, lontano dal mondo mentre lo spettacolo di Rohmer è ambientato in un appartamento parigino.

La relazione tra musica, corpo e personalità è un aspetto del testo che l’ha attirata?
Sicuramente mi ha incuriosita, infatti mi sono chiesta: perché Rohmer ha scritto solo uno spettacolo teatrale ed è incentrato sul Trio Keglestatt di Mozart? Un giorno stavo montando a casa mia ma non stavo ottenendo alcun risultato, così mi sono fermata e ho pensato di ascoltare il brano. Ho improvvisamente visto i tre «attori» attraverso gli strumenti: il clarinetto era Adélia, la viola era Paul mentre il piano era Mozart e la musica stessa. Ascoltando il Trio si percepiscono i conflitti tra gli strumenti, e poi le loro rappacificazioni. Mi sono chiesta allora se anche Rohmer avrà percepito la stessa cosa… Un altro particolare poi è che questi tre strumenti non erano mai stati messi insieme nella storia perché erano ritenuti dissonanti, verrà fatto solo a partire da questa composizione in poi. Uno spartiacque per la musica.