Sull’autonomia basta ascoltare i protagonisti per capire a quale livello di intolleranza reciproca siano arrivati gli alleati di governo. Salvini: «Di Maio dice che l’autonomia può portare a servizi di serie A e di serie B? Amico mio, ma dove vivi? Stando alle indagini la Campania ha un ospedale gestito dalla camorra». Di Maio: «Se danneggia il sud dovranno passare sul mio cadavere». Conte: «Martedì sera ho continuato a lavorare sul dossier autonomia fino a tardi, anche dopo che Salvini era andato via per un appuntamento televisivo». Eppure è proprio Conte ad annunciare che, sulle macerie di questa maggioranza, mercoledì prossimo si alzerà il totem dell’autonomia differenziata attorno al quale la Lega balla già da tempo. Conte: «Direi che ormai siamo in dirittura d’arrivo, mi sono reso garante della realizzazione di questo percorso, la vogliamo fare ma bisogna farla bene e vedrete che la porteremo in Consiglio dei ministri».

L’impegno può spiegare come mai Salvini, dopo aver dovuto incassare lo stop martedì scorso nel vertice notturno di palazzo Chigi, si sia molto trattenuto e abbia quasi del tutto evitato le consuete intemerate contro i «frenatori» del Movimento 5 Stelle. Evidentemente ha ricevuto garanzie che il passo in avanti era rimandato solo di poco. Salvini: «Ci sarà una riunione di tutti i ministri mercoledì. I ministri della Lega hanno le idee chiare. Se i ministri 5 Stelle hanno bisogno di chiarirsele quella sarà l’occasione. L’autonomia non danneggia nessuno».

Quest’ultima affermazione è stata smentita proprio da Conte, l’altra sera. Quando ha tirato fuori un documento del Dipartimento degli affari giuridici di palazzo Chigi che mette nero su bianco, e su carta intestata, quello che giuristi ed economisti critici con la proposta della Lega spiegano da mesi. Non è possibile riconoscere alle tre regioni lanciate verso l’autonomia differenziata – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – una quota di Irpef maggiore, senza penalizzare tutte le altre regioni, oppure senza aumentare i costi per lo stato. Questa ovvietà, del resto già esplicitata dal ministro Tria durante un’audizione parlamentare, viene anche prima di tutte le perplessità sull’iter proposto dalla Lega, che sostanzialmente immagina di delegare una riforma di portata costituzionale a un organo tecnico (le commissioni paritarie), estromettendo il parlamento. Si tratta in ogni caso di un percorso non breve e a quanto pare mercoledì i 5 Stelle sono rassegnati a concedere alla Lega il primo passo. Di Maio: «L’autonomia è nel contratto, credo che una soluzione si troverà».

Su un altro tavolo, intanto, si complicano i piani della maggioranza, perché in prima commissione al senato Forza Italia ha annunciato che non voterà a favore della riduzione dei parlamentari, nell’ultimo e veloce passaggio della riforma costituzionale. Era stato proprio l’appoggio della destra (Fi e Fratelli d’Italia) a consentire a Lega e 5 Stelle di superare la maggioranza assoluta nella prima deliberazione, maggioranza assoluta che adesso a norma dell’articolo 138 della Costituzione è richiesta tassativamente. Per i giallobruni, al senato, è ormai una soglia ad alto rischio, come prova il voto di fiducia di ieri sul decreto crescita, fermo per la prima volta sotto la metà più uno degli aventi diritto.
Per restare sulle riforme costituzionali, sempre al senato la Lega ha presentato in commissione un emendamento alla proposta di legge che introduce il referendum propositivo (per estendere il nuovo quorum di validità anche alle consultazioni regionali). Conferma, questa, delle voci che da tempo danno la riforma bandiera dei 5 Stelle indirizzata verso un inevitabile ritorno alla camera. Dove proprio ieri, infine, la prima commissione ha approvato la mini riforma costituzionale che concede anche ai diciottenni il voto per il senato. Andrà in aula il 22 luglio