La Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso Pd per conflitto tra poteri, sollevato per la inaccettabile compressione dei lavori parlamentari, e documentata dai proponenti con dovizia di particolari. Bisognerà leggere il testo integrale, ma qualche considerazione è già possibile in base al comunicato della Consulta.

Anzitutto, si ricava che la Corte riconosce la legittimazione a ricorrere ai singoli parlamentari, e non al gruppo. Infatti, i singoli sono «legittimati a sollevare conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale in caso di violazioni gravi e manifeste delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro». Una posizione condivisibile.

I gruppi parlamentari, ancorché menzionati in Costituzione, non sono titolari di diritti propri, ulteriori e diversi. A essi spetta una funzione organizzatoria. Dalla posizione della Corte discende che il giudice di costituzionalità non guarda al conflitto tra soggetti politici, né assume la veste di garante dei diritti dell’opposizione, come invece i ricorrenti avevano prospettato.
Non si sceglie quindi la via di giurisdizionalizzare il conflitto politico. Non sarebbe del resto una risposta appropriata per la Corte. Il richiamo ad altri sistemi – come la Francia – in cui l’opposizione può adire il giudice di costituzionalità non è bene posto. In quel sistema, infatti, il ricorso delle minoranze si volge contro l’atto conclusivamente adottato, nell’ambito di un controllo di costituzionalità ex ante. Qui, invece, si rivolgerebbe contro atti interni al procedimento di formazione della legge, in sistema di controllo ex post.

Si vorrebbe così assicurare la corretta formazione della volontà collettiva. Ma la Corte ha ripetutamente affermato la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare (sentenze 379/1996, 129/1981, 120/2014). Le violazioni di norme regolamentari e di prassi «debbono trovare all’interno delle stesse Camere gli strumenti intesi a garantire il corretto svolgimento dei lavori, nonché il rispetto del diritto parlamentare, dei diritti delle minoranze e dei singoli componenti» (sentenza 149/2016).

Questa giurisprudenza in realtà ci dice che un’opposizione trova la sua forza nel paese, nella misura in cui riesce a coglierne i bisogni e gli orientamenti meglio di chi governa. Può tradurre efficacemente quella forza in parlamento se l’istituzione è legittimata e rappresentativa. Il rimedio per un’opposizione evanescente e un parlamento che ha perso la sua voce non si trova in un’aula di giustizia costituzionale, ma nella legge elettorale, nel sistema politico, nella partecipazione democratica.

Tuttavia, la Corte apre uno spiraglio affermando che «non riscontra nelle violazioni denunciate quel livello di manifesta gravità che, solo, potrebbe giustificare il suo intervento».
Certo è difficile ipotizzare circostanze più gravi di quelle in cui al parlamento si impone un ferreo bavaglio. Ma nel caso specifico la Corte ravvisa una eccezionalità. Segue un monito per il futuro: si rischierebbe la incostituzionalità se la cosa si ripetesse.

Nel campo assicurativo la scelta giusta è avere una copertura per i fatti veramente gravi. Per gli altri ci si affida alla sorte, sperando per il meglio. Così è per la Corte costituzionale che dichiara la inammissibilità del ricorso dei senatori del Pd. È la nostra assicurazione costituzionale.
Il guaio è che la sorte al momento non sembra tanto buona.