Stefania è giovane mamma di Elvira, bimba cerebrolesa grave avuta all’età di 19 anni. I medici le comunicano che non c’è nulla da fare, ma lei si ribella a questa sentenza e comincia a sperimentare i suoi studi e le sue velleità artistiche nel prendersi cura di Elvira che comincia a dare risposte positive agi stimoli non coercitivi, bensì espansivi ovvero basati sul piacere: «l’unica cosa che lei accettava era la musica e l’acqua perché ti avvolgono e non ti costringono. Il corpo ha delle memorie profonde, ha una sapienza. Il Placet, la placenta. Oltre lo stereotipo esistente anche nel mondo della riabilitazione che diceva ’tanto non sente, non serve’, ho visto che ha iniziato ad avere risultati, al contrario delle tecniche invasive. Mi sono resa conto di quanto è importante la relazione con il corpo».

COMPRENDENDO che il metodo coercitivo diviene offensivo della persona, Stefania Guerra Lisi si unisce a quella che era la nascente antipsichiatria italiana e si dedica a sperimentare nuove forme di comunicazione e linguaggi per Elvira e per tutti e tutte coloro che esprimono un disagio. Decisivo l’incontro – anche affettivo – con Gino Stefani, maestro della pedagogia e della semiotica musicale. Anche grazie a Gino, crea il metodo della «Globalità dei Linguaggi», in cui si apprendono le potenzialità infinite dei linguaggi del corpo nella cura, l’educazione, la terapia, la riabilitazione in particolare con persone con forti disabilità psicofisiche.

La sua esperienza attraversa cinquant’anni anni di storia andando a sostenere la rivoluzione delle leggi sulla salute mentale, la deistituzionalizzazione, la legge Basaglia, fondando scuole di Globalità dei Linguaggi in tutta Italia, creando un metodo di «musicarterapia» in grado di sdoganare le potenzialità creative e la forza di rottura con un sistema che confonde l’educazione con una mera pratica di adattamento a una realtà precostituita in cui lo stesso educatore «in buona fede, tende più alla normalizzazione che all’espressione».

Stefania Guerra Lisi

ESPRIMERSI, far esprimere e non normalizzare vuol dire rispettare e conoscere le soggettività, le sensibilità, i ritmi interiori, le paure, i limiti, il respiro, i confini di persone con forti difficoltà sensoriali, motorie e psichiche, malattie degenerative come l’Alzheimer o perfino in stato di coma, basandosi sul principio che il corpo ha linguaggi infiniti, sensi che possono risvegliarsi e rendere l’esistenza più piacevole. Il corpo ha una memoria che spesso la mente smarrisce, anche quella prenatale.

Ciò che si impara da Stefania Guerra Lisi, dalla sua pratica o «poetica dell’educazione» è un’esperienza, un cammino, un orizzonte capace di smontare e rimontare un gioco che è la vita, decostruirlo per poi ricominciare di nuovo, innumerevoli volte. Un gioco che invita tutti, nessuno escluso, a non fermarsi e a ricominciare sempre: mai scontato o prevedibile, ci mette nel cammino dell’esperienza, ma anche di prendere coscienza di un’assenza. Quale? L’assenza della globalità dei linguaggi nelle nostre pratiche, ossia delle possibilità infinite che noi avremmo di percepire, comprendere e comunicare perché i linguaggi con cui possiamo esprimerci sono illimitati, come lo è l’universo, ma noi ne utilizziamo una minima parte. Confrontarci con l’assenza ci mette nella dimensione della ricerca, sulle tracce di un sentiero aperto che spesso diviene labirinto in cui smarrirci e ritrovarci: «L’esistere, il mio esistere si interroga sulla materia che ne è la condizione: ogni cosa che si percepisce è una risposta; il destino dell’essere umano che percepisce di percepire è il distinguere-delineare-definire.

Tutto questo lo porta a percorrere i labirinti direzionali di tutti i processi in cui si esprime l’universo fino a scoprire che le chiavi di lettura sono il centro e la direzione». Le parole di Guerra Lisi sono fluttuanti, ma anche unità di descrizione di una pratica costruita e lavorata con impegno e dedizione. Odorano di terra, fatica e polline. Ci conducono nei percorsi della memoria, anche quella prenatale, di cui campo semantico è il corpo stesso.

DEL RESTO, l’avviamento comunicativo-espressivo ha principio nel grembo materno con il dialogo tra madre e bambino che lei definisce «emotonicofonico». Ecco uno dei suoi neologismi: emozione che prende corpo nel suono e nelle sue vibrazioni. Tutti noi abbiamo in comune una vita prenatale in cui siamo avvolti da acqua e suono. Ma una delle funzioni più importanti è quella del tatto. Il grembo materno accarezzava costantemente il nostro involucro, creando una comunicazione di carattere emotivo. Educare il tatto, esprimersi mediante il lavoro con le mani, con la manipolazione della materia, ci conduce a una pedagogia del con-tatto, indispensabile nel vissuto relazionale, anche nel senso della memoria prenatale: «La mano ha come il corpo non solo il centro, ma cinque appendici, anche un dorso e un ventre; nel lavoro con le mani noi dobbiamo sperimentare la differenza del sentire sul palmo e sul dorso» e anche un gesto cosi comune adesso tristemente interdetto, quello della stretta di mano, ha un senso: «un modo di sentire l’altro, un modo di sottoporsi all’altro nel farsi sentire, e nello stesso tempo, anche un distanziamento».

AZIONI apparentemente rituali assumono un significato, l’arte può dare un senso inedito a gesti, parole, suoni che si associano, si fondono, si creano, si trasformano, come materia plasmabile.

Con questi principi, praticando l’inedito, Stefania Guerra Lisi opera in vari Centri di Salute, Università, Istituti e Istituzioni psichiatriche fino a vincere nel 2014 il Premio Giorgio Antonucci per essersi distinta con il proprio lavoro e impegno a difesa dei diritti umani nel campo della salute mentale e per il suo impegno nella diffusione di tecniche rispettose dei diritti della persona.

STEFANIA viaggia per l’Italia spesso accompagnata da Elvira il cui sorriso aperto al mondo resta stampato negli occhi. Non le piace essere intercettata dalla tecnologia, dice che interrompe il suo fantasticare. È un’artista, educatrice che esprime una qualità che riguarda la poesia, la capacità di suscitare sogni, fantasie, sentimenti, risvegliare gli apprendimenti come desiderio, esperienza psicocorporea, valorizzare l’intuito per scoprire significati assopiti. Le immagini dei sogni sono associazioni di sensi, materia concreta, sinestesia. Ti spiazza, sorprende, ti conduce in una sorta di spaesamento come solo la poesia può fare, per poi mandarci «a scuola da Elvira» e imparare un’accezione dell’arte non fine a se stessa ma che ha uno scopo di aiuto, sostegno, contenimento, contatto umano, di creare, ricreare, inventare e reinventare in situazioni di disagio e sofferenza in cui l’istinto potrebbe essere quello di rassegnarsi o sentirsi vittima. Piuttosto che autocommiserarsi la risposta è nel cogliere la bellezza in tutto quello che è vita, organismo vivente, anelito di respiro, anche nelle situazioni più difficili.