«Su questa pianura hanno impresso segni incancellabili milioni e milioni di mani di donne». Lo speaker di Radio Torino, mentre l’inquadratura si allarga, parla tra i treni che trasportano le mondine sui luoghi del lavoro. Quaranta giorni di fatica con la schiena bassa e le mani nell’acqua. È l’incipit di Riso Amaro, capolavoro di Giuseppe De Santis. Sessantotto anni dopo, l’immaginario della risaia è ormai rimosso dal cinema. Quello attuale è un mondo lontano da quello portato sul grande schermo dal realismo del dopoguerra come dal racconto televisivo di Mario Soldati che, qualche anno dopo (1957), con il suo Viaggio nella Valle del Po fece tappa nelle risaie del vercellese, proprio in quella cascina Veneria che fu sfondo del film con Silvana Mangano. Il vociare attorno ai campi si è, ora, fatto silenzio, interrotto solo dal passare cadenzato di trattori e mietitrebbie.

Nonostante la diversità di epoche, la risaia resta un immaginario di estrema materialità dotato ancora di fascino, di contraddizioni e di mutamenti. È stata la coltura che più ha assorbito i dettami dell’industrializzazione, che è stata, poi, strattonata dalla globalizzazione e, ora, prova a risvegliarsi puntando sulla qualità e, seppur ancora in minima parte, su pratiche davvero ecocompatibili.
Il 92% della superficie risicola italiana, su un totale di oltre 230 mila ettari, si trova fra le province di Vercelli, Pavia e Novara. Il restante 8% è sparso tra Veneto, Emilia e Sardegna. In totale sono 4.265 le aziende risicole, 100 le industrie risiere; si tratta di un settore in grado di fatturare ogni anno un miliardo di euro. Il raccolto per la stagione 2017 sta registrando, secondo l’Ente Risi, un buon andamento: 1 milione e 600 mila tonnellate di risone (il riso grezzo). Numeri che fanno dell’Italia il primo produttore europeo in concorrenza, ma senza partita, con il mercato asiatico che detiene il 90% della produzione mondiale. La situazione non è, infatti, così rosea per il settore: l’import da Cambogia, Vietnam e Birmania (di cui farebbe parte, denuncia la Coldiretti, anche il riso «rubato» alla comunità rohingya) è in costante ascesa e le quotazioni del chicco autoctono si sono col tempo dimezzate.

In attesa che Bruxelles risponda alle sollecitazioni di Roma sull’applicazione della clausola di salvaguardia a tutela dalle importazioni dai Paesi asiatici, il 16 febbraio prossimo scatterà l’obbligo di origine in etichetta. La disposizione, richiesta da un decennio, prevede che siano indicati con chiarezza Paese di coltivazione, di lavorazione e di confezionamento. Se le tre fasi si svolgono sul territorio nazionale, si utilizza la dicitura «Origine del riso: Italia». Un primo passo a sostegno della realtà produttiva interna e delle esigenze dei consumatori. Una delle esigenze è un piatto salutare. In Asia sono ammessi pesticidi vietati in Europa da decenni, i cui residui potrebbero finire a tavola. Qual è invece la situazione da noi? Se i rischi alimentari sul prodotto «made in Italy» sono assai contenuti quelli ambientali rimangono una questione aperta. Nonostante ci sia stata una sensibile diminuzione delle vendite di prodotti fitosanitari (-12% nel periodo 2001-2014 secondo i dati Istat), l’ultimo rapporto Ispra sui pesticidi nelle acque (2014) ha rivelato, nell’agricoltura in generale, la contaminazione del 63,9% delle acque superficiali (era del 56,9% nel 2012) e del 31,7% delle acque sotterranee. Tra le sostanze che hanno determinato il superamento dei limiti nelle acque superficiali il glifosato (o glifosate), l’erbicida – utilizzato anche in risicoltura – brevettato dalla Monsanto considerato «probabilmente cancerogeno» dalla Iarc (l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ma non così nocivo dall’autorità Ue per la sicurezza alimentare. Bruxelles ne ha prorogato l’utilizzo per altri cinque anni tra le proteste degli ambientalisti ma anche di Italia e Francia, contrarie al provvedimento invece sostenuto dalla Germania. Nell’area risicola padana se la passerebbero meglio le risaie piemontesi dove, secondo l’Arpa Piemonte, si è ridotto l’inquinamento delle acque superficiali: nel 2016, per esempio, la concentrazione media dell’oxadiazon (erbicida) risulta diminuita del 50% rispetto al triennio 2012-13-14. Il riso italiano, sottoposto a una serie di controlli per l’idoneità al consumo, non preoccuperebbe la catena alimentare, rassicura l’Istituto Superiore di Sanità. Maggiore attenzione bisogna prestare al cereale proveniente dall’estero che nel 2016 ha fatto scattare 12 allerte sanitarie per «partite fuorilegge» a causa della presenza irregolare di residui antiparassitari, di tossine e metalli pesanti oltre i limiti.

Del riso prodotto in Italia, un terzo viene consumato nel nostro Paese, un terzo si esporta in Europa e un terzo nel resto del mondo. A eccezione delle regioni in cui il riso viene maggiormente coltivato non è predominante nella cucina, anzi rispetto a inizio ‘900 è un po’ dimenticato: ogni anno ciascuno di noi mangia poco più di 5 chilogrammi di riso, nel 1920 se ne consumavano 11 chili a testa, secondo un recente studio della Fondazione Veronesi e dell’Università di Milano, che invita a riscoprire il riso, soprattutto nella sua forma integrale perché aiuterebbe a prevenire le malattie croniche.