Incomincia a farsi insistente il timore che il coronavirus possa infettare severamente l’economia mondiale, fino a spingerla verso una nuova recessione globale, come quella del 2007-2008.

Che l’epidemia lasci presto il posto ad una crisi globale ne è convinto l’economista statunitense Nouriel Roubini, quello che aveva predetto la catastrofe finanziaria dei subprime. «Non sarà una faccenda solo cinese come molti pensavano o avevano sperato», è stata la sua conclusione al Sole 24 Ore. E alcuni segnali, già adesso, sembrano dargli ragione.

In attesa dei dati ufficiali sulla crescita nel primo trimestre di quest’anno, si può constatare che la contrazione della produzione e degli scambi su scala globale sta già spingendo pericolosamente il volume delle vendite sui mercati borsistici, mai così agitati proprio da quel fatale 2008.

Beninteso, in economia c’è una sola certezza: tutte le previsioni rischiano di essere smentite dai fatti. «L’Economia è lo studio del genere umano negli affari ordinari della vita», avrebbe detto Alfred Marshall. Pertanto, ogni tentativo di replicare le relazioni umane in modelli astratti è soltanto un’illusione. Non è sbagliato, tuttavia, affrontare il presente valutando situazioni affini del passato. Soprattutto per evitare sottovalutazioni ed errori di omissione.

Roubini dichiara anche che questa volta «né le politiche fiscali né quelle monetarie potranno significativamente alleviare» gli effetti della crisi. Eppure, se guardiamo alla gestione sanitaria dell’epidemia, un dato emerge chiaramente: solo lo Stato e le strutture pubbliche sono in grado fronteggiare con una certa efficacia l’emergenza. Emblematico il caso italiano. Fino ad un mese fa si favoleggiava sull’autonomia differenziata, oggi si ragiona sulle falle di un sistema che ha demandato troppi poteri e competenze alle singole regioni.

E si invoca un coordinamento centrale delle decisioni.

Passando dal livello sanitario a quello economico, non vi è dubbio che un’eventuale crisi debba trovare pronti innanzitutto i governi e gli Stati.

E l’Europa, per quanto ci riguarda. Di fronte ad una minaccia che si fa beffe dei confini, Bruxelles dovrebbe entrare in campo per svolgere una funzione proattiva, adattando le sue politiche alla nuova situazione che si è venuta a determinare.

Solo per quanto riguarda l’Italia, l’impatto del coronavirus sul Pil potrebbe essere di almeno lo 0,2% (stima di Bankitalia), ma c’è anche chi fa previsioni più pessimistiche (alcune associazioni di categoria). Certo è che il nostro Paese è già tecnicamente in recessione, avendo chiuso il quarto trimestre dell’anno scorso col segno meno (-0,3%) e col segno meno chiuderà inevitabilmente il primo trimestre di quest’anno. Il coronavirus, pertanto, non fa che impattare su una situazione già compromessa. E quello che percepiscono i mercati (e gli speculatori), che lasciano i nostri Btp per lidi ritenuti più sicuri (lo spread è tornato ai livelli di agosto 2019).

C’è il rischio di un avvitamento e che il prolungarsi dello stato d’eccezione porti alla chiusura di circa 15 mila piccole imprese in svariati settori, dalla ristorazione alla ricettività, dalla distribuzione ai servizi, con la perdita di decine di migliaia di posti di lavori (così stima Confcommercio). Per non parlare della manifattura, di quei pezzi del sistema produttivo maggiormente integrati nella catena internazionale del valore, che il contraccolpo della serrata cinese l’hanno subìto fin dall’inizio.

Ecco perché l’Europa è indispensabile. Ma l’Europa, nel senso delle sue istituzioni (Commissione e Banca centrale), è pronta a fare fino in fondo la sua parte?

Nella conferenza di presentazione del dossier sui conti pubblici degli Stati membri, Gentiloni ha tirato fuori la solita «flessibilità» per i Paesi in difficoltà, ritornando poi sulla dicotomia tra Paesi virtuosi e Paesi con forti squilibri macroeconomici, tra cui l’Italia. Christine Lagarde, da parte sua, ha addirittura dichiarato che «non è ancora il momento della Bce, per adesso è sufficiente monitorare».

Un film già visto. Rischiamo una crisi di grandi proporzioni, ma l’ossessione restano i bilanci pubblici. Gli effetti della riduzione degli scambi internazionali possono essere compensati soltanto rianimando il mercato interno. E per farlo c’è bisogno che spenda lo Stato, anche in disavanzo. Tutti gli Stati, non solo chi è in surplus di bilancio come la Germania.

Il debito? Deve pensarci la Bce, altro che stare a guardare.