La crisi politica ha messo in un cono d’ombra il Recovery plan proprio quando il Parlamento avrebbe dovuto aprire il confronto sulla visione e le proposte del documento elaborato dal governo Conte. Nella fase complicata che sta attraversando il Paese il rischio è che si perda l’ultima occasione per portare miglioramenti e modifiche attraverso un confronto pubblico. Oltretutto è proprio quello che ci chiede l’Unione europea, che lo ha messo nero su bianco nella Guida approvata la scorsa settimana per la presentazione dei piani, che pretende di sapere quali consultazioni e incontri sono stati organizzati per arrivare a definire le proposte che si chiede di finanziare.

Ha sbagliato il governo a non prevedere questo confronto prima e a non organizzarlo ora in una forma che non vada oltre i soliti incontri con le parti sociali. Perché Next Generation Ue è un programma di una dimensione che va oltre l’ordinario, sia in termini di idee che di soggetti e territori coinvolti. E sta proprio qui il limite di impostazione del piano italiano. Quell’elenco di interventi, diviso nelle sei missioni previste da Bruxelles, non è ancora lo strumento che può consentire al nostro Paese di diventare più verde, digitale e resiliente come è nell’ambizione del programma straordinario di finanziamenti. Dal digitale alla scuola, dalla sanità alla transizione ecologica è ora il momento di chiarire la visione di cambiamento che si vuole proporre, di individuare le riforme necessarie e gli interventi davvero coerenti, arrivando a cancellare le diverse proposte inadeguate e contraddittorie. Per la parte ambientale, a cui va destinato almeno il 37% delle risorse, il problema è assolutamente evidente.

Mancano le riforme che permetterebbero di sbloccare la bonifica di quasi 200mila ettari di terreni inquinati, non si fa cenno dei sussidi alle fonti fossili e neanche di quel piano di adattamento ai cambiamenti climatici di cui il nostro fragile Paese ha un incredibile bisogno e che permetterebbe di fermare lo sperpero di risorse a pioggia. Se si legge l’elenco degli interventi previsti per la transizione ecologica è evidente il rischio che si infrangano contro quel muro di burocrazia che oggi blocca impianti solari, eolici, di biometano e la stessa riqualificazione energetica del patrimonio edilizio.

Un confronto trasparente e aperto al contributo della società civile permetterebbe di mettere in luce alcune proposte che rispondono esclusivamente a interessi privati. Un esempio sono investimenti in costosissimi e inutili treni ad idrogeno prodotto da fonti fossili, in manutenzioni autostradali che dovrebbero pagarsi con le concessioni, dall’insieme degli interventi che Eni vuole farsi pagare con le risorse europee. Da qui si possono recuperare diversi miliardi di euro da investire nelle città, per aiutare le persone a trovare nuovi autobus, treni e corsie ciclabili.

Ma la discussione politica forse più importante riguarda l’intreccio tra queste politiche ambientali e i territori, come passare da un elenco di finanziamenti a progetti dove si possano condensare idee, tecnologie innovative e finanziamenti per dare un futuro a territori e comunità oggi senza speranza. Il rischio è che nulla cambi per il destino di Taranto, Brindisi, Priolo, La Spezia, Gela, nel Sulcis e a Porto Tolle, a Civitavecchia. Dove si rischia il deserto industriale e sociale nei prossimi anni se non saremo in grado di costruire progetti come quelli che si stanno mettendo in campo ad Amburgo, in Olanda e in Francia.

In quei Paesi alle grandi aziende controllate dallo Stato non si lascia carta bianca nella gestione dei finanziamenti per sviluppare idrogeno e rinnovabili, ma gli si chiede di contribuire a progetti di riconversione industriale e di riqualificazione ambientale. Si può fare anche da noi, il tempo non manca e non esiste scusa che tenga per immaginare e costruire un futuro diverso oltre la Pandemia.