Se sul finire del 2013 si sono palesati sbiaditi segnali di crescita, la ripresa – minima – che dovrebbe avvenire nel 2014, potrebbe essere «senza occupazione»; è quanto emerge, tra gli altri dati, dal rapporto «Check up Mezzogiorno», elaborato da Confindustria e Studi e Ricerche per il Mezzogiorno. A fine anno, infatti, il dato sulla disoccupazione è del 19,8 percento (un giovane su due non ha lavoro), mentre rispetto al 2007 ci saranno almeno 600mila occupati in meno, con un raddoppio solo nell’ultimo anno, nonostante i proclami di chi annuncia un’inversione di tendenza. Si tratta di risultati che costituiscono lo specchio di quanto – secondo gli industriali – accade nel mondo dell’impresa: negli ultimi sei anni sono andati persi 43,7 miliardi di euro di Pil, mentre nei primi nove mesi del 2013 sarebbero almeno 100 mila le imprese meridionali che hanno chiuso: 366 cessazioni al giorno (e 2.527 fallimenti).
C’è stato un determinante calo delle esportazioni, diminuite nel terzo trimestre del 2013 del 9,4 percento, rispetto al terzo trimestre del 2012: si tratta di risultati condizionati dal crollo della siderurgia e degli idrocarburi, mentre segnali positivi sono giunti dai settori alimentari, chimici e dai distretti produttivi meridionali in particolare in Puglia, Sicilia e Campania.

Si tratta di elementi che sommati hanno portato il più delle volte alla chiusura delle piccole imprese, mentre la media e la grande impresa – chi ce la fa e riesce a sopravvivere – vede aumentare i propri fatturati, con un +8,2 percento, mentre il fatturato delle piccole imprese che non chiudono è calato del 9,4 percento tra il 2007 e il 2012. Secondo il report di Confindustria sono necessari alcuni passi decisivi nell’ambito delle politiche economiche italiane, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo del Mezzogiorno: in primo luogo gli industriali italiani chiedono una drastica riduzione del cuneo fiscale, in secondo luogo una più generale strategia di politiche di sviluppo nel breve e nel lungo periodo, in grado di rilanciare l’economia del sud del paese, che dipenderebbe in modo gravoso dal sostegno pubblico.
Altre ricerche e altri dati sulle imprese italiane: si tratta dei numeri della Cgia (Associazioni artigiani e piccole imprese) di Mestre, secondo cui, complessivamente, il numero delle imprese presenti in Italia ha superato i 6 milioni, con più aperture che cessazioni, benché i numeri siano implacabili: 296mila nuove iscrizioni, contro le 288mila aziende che hanno invece cessato le proprie attività. Una differenza minima. A sentire il segretario della Cgia Giuseppe Bortulossi «nonostante il dato medio nazionale sia positivo – ha dichiarato – continuano a chiudere le imprese strutturate, mentre quelle che nascono sono realtà costituite quasi esclusivamente dal titolare. Sono le imprese della speranza, di chi ha deciso di aprire la partita Iva e rientra nel mercato del lavoro dopo esserne uscito a seguito della chiusura dell’azienda in cui lavorava come dipendente. A conferma di questa tendenza è utile ricordare che la disoccupazione, purtroppo, continua ad aumentare». Lavoro indipendente, autonomo, a partita Iva, tra mille difficoltà; e se il dato complessivo nazionale in qualche modo resiste, ma non si può garantire sul futuro, crolla quello riferito all’artigianato: nei primi nove mesi di quest’anno il saldo si è attestato a -23.143. «Da anni l’artigianato segna il passo – conclude Bortolussi – la crisi del mercato interno, la mancanza di liquidità e il forte aumento delle tasse hanno messo in ginocchio il settore»