In sala oggi arriva Undine, il nuovo film di Christian Petzold, uno dei film dell’anno – i critici italiani gli hanno dato il «bollino» di film del cuore – in cui il regista tedesco, autore ancora poco svelato dai nostri mercatinonostante una carriera trentennale, molti premi e riconoscimenti internazionali – per Undine, la magnifica attrice Paula Beer ha vinto l’Orso d’argento alla scorsa Berlinale mentre Petzold è stato giurato alla Mostra del cinema di Venezia – unisce una lettura emozionale delle architetture della sua città, Berlino, e delle sue mutazioni nel tempo alla storia d’amore tra i due giovani protagonisti attraverso la figura mitologica della ninfa.

UNDINE come quella ragazza bella e solitaria (Beer) che lavora al museo come guida, le sue «lezioni» che spiegano ai visitatori la storia di Berlino e il suolegame con i canali su cui si eleva, sono le più appassionanti. Undine ha un uomo che l’ha lasciata, per lei è intollerabile: «Ti ucciderò» gli dice. Poi però davanti all’acquario del caffé dove si incontravano sempre gli appare Christophe (Franz Rugowski, già protagonista del precedente film di Petzold, Transit), un gesto maldestro, i vetri volano in pezzi, con loro l’acqua e i pesci. I due si guardano: è subito amore. Eterno? Undine è un melò, una storia d’amore le cui tracce rimbalzano tra le mura e nei corsi d’acqua della metropoli, si incidono nei vuoti e nei pieni di case e spazi aperti, nei sentimenti liquidi che avvolgono i personaggi sin dal primo incontro, e che Petzold traduce in immagini – senza cedere a dogmi o a impulsi di fomattazione – in una scrittura limpida che oppone il movimento alla programmaticità. È un regalo questo film, un’occasione speciale per tornare nelle sale riaperte da poco dopo il lungo lockdown imposto dalla pandemia, e a quanto si dice in sofferenza nonostante l’eco della scommessa riuscita della Mostra di Venezia, che era vista come un importante rilancio per il sistema cinematografico in Italia.

I NUMERI a detta degli «analisti» non sono eccitanti: Tenet resta in cima alle classifiche, con 435mila euro di incassi nell’ultimo weekend (e 5 milioni totali): un terzo degli incassi complessivi nei cinema italiani – riaperti all’80% – che dalla settimana scorsa calano però del 34% – e dell’83% rispetto al 2019. Ma è anche vero che ogni valutazione deve considerare il dimezzamento dei posti, per cui sarebbe sbagliato interpretare negativamente i risultati di Le sorelle Macaluso – (che in due settimane ha totalizzato 219mila euro) e Miss Marx (uscito la settimana scorsa, a quota 113mila euro).
Ci sono da valutare ovviamente altri fattori. Il primo è la mancanza di blockbuster, Tenet a parte, di grossi film con cast che trainano – servono è inutile arricciare il naso come fondamentale contrappunto a una programmazione basata invece ora su una produzione d’autore per lo più nazionale che, a parte alcuni casi (e neppure sempre ormai i cosiddetti «cinepanettoni») non ha mai raggiunto cifre altissime.

I MERCATI americani sono fermi – lo sanno bene in Francia dove la possibilità di sopravvivenza del cinema più indipendente è legata agli incassi garantiti dei prodotti hollywoodiani – e le piattaforme, Netflix o Amazon in testa che ormai «controllano» moltissima produzione d’oltreoceano (e non solo) non sembrano avere interesse a portare i loro film in sala. Sarà per la pandemia – come hanno motivato la decisione di disertare Venezia – o a causa della campagna elettorale col timore di passare per «fiancheggiatori» di Trump e della sua indifferenza verso il virus se i loro marchi apparissero tra folle plaudenti in sala e in presenza. O forse più semplicemente finalmente possono fare quello per cui sono lì: lo streaming lasciando la sala da parte, che nei loro obiettivi o nella loro politica «editoriale» non era certo primaria. Il risultato è che alcuni titoli molto attesi – dal nuovo film di Sofia Coppola, On the Rocks, a Il processo ai Chicago 7 di Sorkin, fino al già visibile Kaufman di Sto pensando di finirla qui – usciranno subito in streaming.

La crisi del post-lockdown c’è ma come molte altre cose era già lì, il Covid l’ha accelerata – e ampliata – affermando con maggiore prepotenza politiche che erano in corso– pensiamo alle piattaforme appunto. Il discorso è molto complesso, però ciò che era necessario prima della chiusura diviene oggi indispensabile: modificare le strategie della distribuzione, soprattutto, ripensandole secondo diverse esigenze, su ogni film, con un investimento differenziato di comunicazione (social o quant’altro), con la presenza dei registi. Inventare perché gli automatismi non sono dati, e neppure i premi o i festival da soli bastano. Magari potrebbe essere davvero l’occasione per una nuova partenza – anche perché poi i numeri degli eventi, quali per fare u n esempio la rassegna «Venezia a Roma», mostrano che invece il pubblico c’è anche con mascherine e gel. Provarci è importante.