Angelo Maria Ripellino è stato un fortunato slavista e uno sfortunato poeta. Un destino beffardo, il suo, visto che l’etichetta di «slavista» Ripellino l’ha sempre portata con fastidio. D’altro canto, mentre i capolavori del critico (Il trucco e l’anima, Praga magica) e del traduttore (di Blok, Pasternàk e Majakovskij tra gli altri) continuano ad attirare l’attenzione dei lettori, la sua poesia non è mai davvero entrata nel canone del Novecento: Ripellino non è un poeta facilmente antologizzato né ha goduto, fino ad oggi, di edizioni annotate.
È grazie alla riproposta del suo penultimo libro di poesie, in origine pubblicato da Einaudi nel 1976: Lo splendido violino verde, a cura di Umberto Brunetti, con due scritti di Corrado Bologna e Alessandro Fo (Artemide, pp. 304, € 30,00), che finalmente e per la prima volta una raccolta ripelliniana viene accompagnata da un commento. Nell’introduzione Brunetti passa in rassegna lo stato degli studi sul Ripellino lirico e le carte d’archivio – preziosi inediti che fanno da avantesto alla raccolta –, offrendo da subito una mappa per aggirarsi nel «viluppo» dei versi. Ci si addentra nel loro stile, ad esempio, espressionista e barocco, sostenuto dall’«inesausto gioco delle allitterazioni» e da un gusto marcato per la paronomasia («il male è miele» si legge nella quarta lirica, con allusione al diabete che affliggeva il poeta). O ancora, risalendo lungo la dorsale novecentesca, si va alla ricerca dei modelli, tra cui spiccano i progenitori crepuscolari, dal Gozzano che fa rimare «Nietzsche» con «camicie» (e Ripellino chiude il libro sulla rima Schygulla: Nulla), al Palazzeschi del Controdolore e della «gioia saltimbanca della vita» (per rubare a Ripellino il titolo di un saggio su Marc Chagall), la cui attitudine spicca nella lirica più breve, la numero 72: «Darling, lo so, il mio continuo lamento ti attedia, / questa eterna altalena tra ebbrezza e malore. / Il mio rammarico è forse volontà di commedia. / Grande è la buffoneria del dolore».
È un tema, questo del poeta-saltimbanco, che non solo dona alla poesia un certo potere esorcizzante nei confronti della malattia, ma anche imparenta l’autore con ben più lontani e illustri antenati: i simbolisti francesi, da Gautier all’Arlecchino Trismegisto di Apollinaire, e soprattutto al Vecchio saltimbanco di Baudelaire, alter ego e tragica incarnazione del poeta nella società moderna. Su questa discendenza insiste Corrado Bologna nel saggio premesso al volume, nel quale – un po’ come accade negli affondi critici ripelliniani – il tono assume una vivacità da ballata: dopo aver ripercorso le ragioni estetiche e stilistiche della poesia di questo grande irregolare, egli arriva a indagare gli effetti per così dire escatologici della commistione bifronte di gioia e dolore, di buffoneria e di tragedia, sulla scorta delle pagine di un gioiello della critica novecentesca caro allo stesso Ripellino, il Portrait de l’artiste en saltimbanque di Starobinski. È del resto pensando a Baudelaire e ai Fiori del male che Bologna ritraduce le liriche ripelliniane in Fiori della malsanìa, una malsanìa che è parola-chiave nella poetica dell’autore e che si fa fil rouge, nell’esplodere del diabete e nell’avanzare della tubercolosi, dello Splendido violino verde.
Lo scavo di Brunetti ricostruisce l’evoluzione dei principali percorsi tematici della raccolta (non solo la malattia, ma anche l’incapacità di amare, il senso di vecchiaia precoce, la riflessione sul valore dello scrivere versi): attraverso i puntuali rimandi interni, approntati per ogni lirica, spicca la costruzione dello Splendido violino verde come vero e proprio libro di poesia. Acquistano rilievo, allora, i testi incipitari e conclusivi: ad esempio la prima lirica della seconda sezione, dove Ripellino si cala nei panni del suonatore del «magico violino verde», uno strumento che alla fine del libro risulta ormai «in fiamme» ma su cui si può ancora continuare a suonare prima che sia troppo tardi, «prima che cada il sipario come una ghigliottina».
Dietro al titolo della raccolta si cela il ricordo di un quadro di Chagall, Il violinista verde, e le arti pittoriche giocano un ruolo di non poco conto nella particolare tecnica figurale ripelliniana, nutrita di immagini di Klee e di Magritte (nella prima sezione alla «gioia» si oppone ad esempio, con scatto analogico, l’«obbrobrio» di una «notte-Goya»). È proprio nel continuo riferimento al mondo delle arti che il commento di Brunetti mostra una delle sue qualità peculiari. A emergere è un dialogo costante non solo con la pittura, ma anche con la musica, il teatro e il cinema: si pensi ancora all’apostrofe a Hanna Schygulla, l’attrice di Fassbinder, che chiude la raccolta (e la cui foto troneggia sulla copertina della nuova edizione).
L’apparato di note diventa poi uno strumento fondamentale per decodificare il sistema poetico di Ripellino quando la densità culturale aumenta: i riferimenti ai suoi modelli-feticci, talvolta cripto-citazioni o dialoghi impliciti, vengono puntualmente chiosati con l’aiuto delle agende manoscritte e delle prose ripelliniane (un merito, questo, che va a sommarsi agli altri del presente lavoro).
Lo splendido violino verde compendia le «reliquie» di una personale «tassonomia scombinata»: radunando le ossessioni e le immagini variopinte dell’universo di Ripellino, si rende il punto più profondo toccato dalla sua parabola poetica. Non è un caso che la scelta del commento sia ricaduta proprio su questa raccolta di cui è facile innamorarsi a prima lettura, come è successo appunto a Brunetti e come è accaduto anche ad Alessandro Fo, che chiude il volume risalendo «la corrente dei ricordi personali, per testimoniare (…) quanto decisivo possa essere (…) l’incontro con un libro». Questa edizione annotata, c’è da augurarselo, non potrà che incentivare la riscoperta e l’approfondimento di tutta quanta la poesia di Ripellino, rendendo così più vicino a realizzarsi il sogno che ne sigillava il libro: «che il nome / fra tanto oblio sopravviva».